Lunedì 5 Marzo 2007
Il volo è alle 22:30, arrivo alla Malpensa con un buon anticipo, e subito
dopo il check-in arriva la sorpresa: ho piazzato tutta l’attrezzatura
fotografica nel trolley che ho come bagaglio a mano, ma in piccolo
cavalletto che ho in valigia non piace alla security.
Mi tocca provare a spedirlo da solo (lo zainone è già stato stivato), con
pochissime speranza di vederlo arrivare, mi informano allo sportello.
Pazienza.
Tutto sommato è l’unico inconveniente del viaggio aereo che faccio con Qatar
Airways, fino a Doha con un Airbus 330 nuovo di zecca, e poi fino a
Kathmandu con un altro Airbus meno pretenzioso.
(Nota: i voli Qatar sono, per quello che ho potuto verificare, i più
convenienti: per spuntare le migliori tariffe è necessario provare diverse
combinazioni andata-ritorno. Il mio biglietto Lunedì-Lunedì è costato € 776
, ma se avessi scelto Venerdì-Venerdì sarebbero stati € 1.200!)
Martedì 6 Marzo 2007
Prima di arrivare a Kathmandu i finestrini di sinistra godono di un
meraviglioso panorama sulla catena himalayana, quindi se potete scegliere il
sedile…
Si atterra verso le 16 locali, e si comincia bene: del treppiede nessuna
traccia, naturalmente.
Per entrare in Nepal è necessario il visto, che si fa all’aeroporto alla
modica cifra di 30 $ (è necessario anche un paio di fototessera che vi
potrete far fare al momento con una polaroid antidiluviana, per 200 NPR),
con relativa coda.
All’uscita dall’aeroporto…è il caos!
Sono assalito da tutte le parti da tassisti, portantini, procacciatori di
alberghi ed agenzie di viaggio “Sir, Sir, this way please! Need hotel? I
take you, Sir! Want go trekking, Sir?”
Io sono in parola con l’Hotel Garuda, e difatti scorgo tra la marea umana un
cartello dell’albergo: il tassista mi conduce al suo rugginoso furgoncino
Mitsubishi dove salgono altri due nepalesi, uno dei quali ha il compito di
tenere chiusa la portiera scorrevole che manca clamorosamente di maniglia.
L’altro parla un discreto inglese e mi spiega di chiamarsi Fanindra (detto
Fani) e di essere guarda caso titolare di una agenzia di trekking, e guarda
caso avrebbe libera una delle sue migliori guide…
Il traffico è più che caotico: è l’anarchia viabilistica totale. Auto, moto,
bici, motocarri, risciò si mescolano in una interminabile cacofonia di
clacson.
Ci metto un buon paio di minuti per rendermi conto che in Nepal si tiene
(teoricamente) la sinistra, e poco più per stupirmi che nonostante
l’andatura a passo d’uomo tutti i conducenti mantengono un serafica calma
che non so se attribuire a fatalismo orientale o a self control ereditato
dagli Inglesi.
Intanto, in poco meno di mezz’ora, sono a Thamel, il quartiere del budget
traveller!
Le strade sono strette, ancora più caotiche dalla media, gli edifici
letteralmente ricoperti da una miriade di insegne commerciali in inglese.
Arrivo all’Hotel Garuda, e mi piazzo in una camera al secondo piano, con
tanto di TV satellitare (in teoria le camere con TV dovrebbero costare di
più dei 10 US$ pattuiti).
Mi piacerebbe fare una doccia, ma a causa del razionamento dell’energia
elettrica l’acqua calda sarà solo la mattina dopo.
Prima di nanna vado all’agenzia di trekking di Fani e comincio a farmi
un’idea della situazione e dei costi: due settimane all inclusive (si fa per
dire) con vitto, alloggio in rifugio, guida, portatore, assicurazione, voli
costano…
Alt, niente portatore! Insisto che è assurdo avere due persone con me: se la
guida è in grado di portare parte del mio bagaglio bene, altrimenti cercherò
altrove.
Fani sorride: “No problem, I will give you a good guy, he will guide you and
carry half of your baggage”.
Probabilmente in alta stagione (Settembre-Novembre) cercheranno di
convincervi a prendere con voi due persone anche se siete soli, ma a Marzo i
turisti sono pochi e le agenzie, pur di non farsi sfuggire un prezioso
cliente, si accontentano di organizzare spedizioni più modeste.
Alla fine concordiamo 900 €, pagati in anticipo parte in contanti parte con
carta di credito. Prima di pagare Fani mi fa consultare il libro delle
referenze: un massiccio volume pieno di lodi da parte di escursionisti da
tutto il mondo.
L’albergo è a pochi metri di distanza, ma nel caos serale di Thamel rischio
lo stesso di perdermi…
Mercoledì 7 Marzo 2007
Dopo una notte disastrosa (la mia camera dev’ essere sopra un negozio di
dischi, con musica fino alle tre di notte) si trovo in piedi alle 6:30.
Il clima è fresco ma molto umido. Nelle strade, finalmente quiete, passano
solo i camion della nettezza urbana preceduti da donne che con improbabili
scope senza manico ammonticchiano la spazzatura.
Dopo colazione (Garuda non ha ristorante, per cui mi trovo un bar nelle
vicinanze – per la cronaca due uova, toast e the 125 NRP) mi avvio con calma
verso sud, dove dovrebbe essere il centro storico. Naturalmente appena
usciti da Thamel non ci sono indicazioni che non siano scritte in devanagari,
per cui mi perdo un paio di volte nel caos cittadino prima di riuscire a
raggiungere il cuore di Kathmandu: la meravigliosa Durbar Square con i suoi
templi Hindu di molti stili.
Da lì con un taxi (300 NRP) vado a Pashupatinath, il massimo tempio Hindu
dove vengono celebrate le cerimonie funebri con cremazione e dispersione
delle ceneri nel fiume. Ci sono due cremazioni in corso, ed il puzzo di
carne bruciata è piuttosto forte. Naturalmente l’ingresso al tempio vero e
proprio è proibito ai non Hindu, ma si può tranquillamente passeggiare
esternamente tra i Sadhu, i caratteristici santoni seminudi dalla pelle
cosparsa di cenere e dalle incredibili sigarettone di marijuana.
Una camminata di un paio di km e si arriva al Boudhanath, il tempio (o
meglio lo Stupa) Buddista dall’inconfondibile sagoma bianca, ornato di
migliaia di multicolori bandiere di preghiera.
Dimenticavo, l’ingresso ai maggiori monumenti costa (solo ai turisti) 100
NRP.
Al rientro a Thamel (taxi, altre 300 NRP) mi incontro con la guida inviatami
da Fani: è un giovanotto serio dalla pelle scura, di aspetto decisamente
indiano, di nome Yadab. Mi chiede in un inglese decoroso di mostrargli la
mia attrezzatura (approvata) e di soppesare lo zaino (OK anche questo).
Parliamo un pò dell’itinerario e delle mie aspettative, poi usciamo: mi
conduce in un negozio di trekking dove alla luce delle candele (ennesimo
blackout) acquisto le compresse di iodio per purificare l’acqua (con 450 NRP
posso trattare 90 litri d’acqua).
L’indomani appuntamento alle 6:45!
Giovedì 8 Marzo 2007
Altra notte rumorosa: mi sveglio presto per fare una doccia, pago l’albergo
(25$ compresa telefonata e taxi dall’aeroporto) e mi incontro col
puntualissimo Yadab.
Usciamo in strada, e comincio a comprendere il concetto nepalese del tour
“all inclusive”.
Yadab si ferma al primo taxi, confabula un pò, poi insoddisfatto va da un
altro, mercanteggia animatamente col tassista che piange miseria, estrae
dalla tasca un rotolone di rupie, paga e saliamo su una rugginosa Maruti.
Destinazione aeroporto Tribhuvan, scalo voli interni.
Lo scalo è uno spettacolo quantomeno inconsueto per un occidentale: in un
salone affollato di guide, portatori, turisti provenienti da tutto il mondo
si ammucchiano ceste, sacchi, bidoni, zaini in una confusione mostruosa. In
una gabbia scorgo un paio di galline: brodo in vista per qualche spedizione,
presumo.
Il check-in e gli annunci all’altoparlante sono naturalmente in nepalese,
così come prettamente nepalese è la ressa al banco di Yeti Airlines.
Il nostro aereo dovrebbe partire alle 8:00, ma dato che ci sono nuvole a
Lukla tutto è sospeso: anche i passeggeri del volo delle 7:00 vagano ancora
nella sala d’attesa.
Naturalmente data l’incerta meteorologia himalayana il fatto di avere fatto
il check-in è di buon auspicio, ma non garantisce minimamente di partire
nella giornata prevista.
Per fortuna però verso le 10:00 l’altoparlante gracchia qualcosa e subito si
scatena il trambusto: a Lukla ne nuvole si stanno aprendo, di corsa tutti
verso gli aerei!
I bagagli sono caricati senza tante cerimonie su un carrellino agganciato al
vetusto bus che ci scorrazza per le piste fino ad un robusto bimotore ad
elica (Un De Havilland Twin Otter STOL, cioè a decollo/atterraggio corti)
con una ventina di posti.
Nel giro di pochi minuti siamo in aria: nel frastuono dei motori Yadab mi
indica qualcosa dal finestrino di sinistra: è l’Everest! Il panorama della
catena himalayana è impressionante: sbircio l’altimetro dell’aereo (sono in
prima fila, e posso quasi toccare i comandi), 12000 piedi, quasi 4000 metri,
ed un numero spaventoso di cime molto più in alto di noi!
Dopo un po’ di slalom tra le nuvole i piloti azzeccano il corridoio giusto e
vediamo il microscopico aeroporto di Lukla: una sottile striscia di asfalto
tra campi e casette.
La pista è in pendenza (si atterra in salita, si decolla in discesa) e
termina contro un poco rassicurante terrapieno: l’applauso ai piloti per
l’atterraggio perfetto è del tutto spontaneo!
Recuperati gli zaini ci avviamo ad uno delle decine di lodge di Lukla: è
quasi mezzogiorno, ci si ferma a mangiare. Il cielo ora è coperto, e fa
freddino.
Yadab consiglia di evitare la carne, perché con lo sbalzo di altitudine la
digestione potrebbe essere difficile: mi adeguo e prendo solo riso e the.
Si parte per la prima tappa, che sulla carta dovrebbe essere una discesa di
un paio d’ore. In realtà la “discesa” è piuttosto tormentata da continui
saliscendi su un largo sentiero molto battuto da carovane di portatori
carichi all’inverosimile.
Comincio a fare i conti con la tradizione buddista di oltrepassare i
frequenti chorten (tempietti) tenendo rigorosamente la sinistra, in modo da
aggirarli in senso orario (il senso in cui del resto vanno fatte girare le
immancabili ruote di preghiera).
In un meno di tre ore siamo a Phakding, una lunga striscia di lodge
allineati lungo il sentiero.
Ci fermiamo al See You, uno dei primi. C’è solo un altro cliente, una
studentessa canadese che se la sta facendo a piedi da Jiri, ed ha già
camminato una settimana con la sua guida!
Cena a Dal Baht, riso con verdure e salsa di lenticchie, annaffiato con the
verde, poi a nanna al freddo, in una stanzetta di legno piena di spifferi.
Venerdì 9 Marzo 2007
Sveglia di buon mattino, raccapricciante colazione con porridge di avena
bagnato con the verde e latte di yak bollente, ed alle 8:00 si parte per una
delle tappe più temute: la salita a Namche Bazar.
Sono solo 800 metri di dislivello, una salita che sulle alpi mi berrei in un
paio di ore.
Ma qui si parte da 2600 metri per arrivare a 3400, già oltre il mio
personale record di altitudine!
In effetti già alla partenza mi sento la testa vuota e le gambe molli.
L’ascesa vera e propria comincia verso le 10:30, ed arrivo completamente
spompato al lodge Namche Inn (molto accogliente) verso le 13:30.
Sulla strada ci sono due punti panoramici da cui si riesce a vedere
l’Everest: anche da questa distanza la sua mole tozza e nerastra, vista su
tante foto e ancora di più immaginata è inconfondibile. Il Colle Sud, la
Fascia Gialla, tutti quei nomi appresi dalla lettura di Aria Sottile ora
prendono forma materiale.
Intanto a Namche io decido di saltare il pranzo: sono così sfinito che la
sola idea del cibo mi nausea. Mi sforzo invece di mandare giù almeno qualche
liquido, perché l’altitudine toglie la sete e la disidratazione è un
pericolo reale.
Dopo una doccia tanto corroborante quanto avventurosa (si deve chiedere una
pentola d’acqua bollente, che viene poi versata in un catino sopra al
soffitto, dotato di rubinetto) decido per un giro in Namche.
Il paese occupa le pareti di in un anfiteatro naturale, con al centro lo
Stupa buddista.
Dappertutto alberghetti, ristoranti, negozi di souvenir ed attrezzatura
alpinistica, due lavanderie, alcuni internet cafè satellitari (900 NRP
l’ora), addirittura una banca con prelievo VISA, e due pasticcerie con menù
da konditorei germanica.
Una cosa mi dà da pensare: nella strada principale c’è ancora un mucchio di
neve, segno certo che salendo sarà ancora più dura.
Oltretutto verso la quattro del pomeriggio il cielo si rannuvola e comincia
una impalpabile nevicata.
In compenso scovo due italiani (dopo un quarto d’ora di conversazione in
inglese con una coppia di sconosciuti scatta il fatidico “where are you from?”)
che sono qui da due mesi ed insegnano inglese e matematica alla scuola
elementare locale nell’ambito di un progetto ONU.
Ora sono proprio distrutto: alle 18:30 cena, e subito dopo mi infilo nel
sacco a pelo.
Sabato 10 Marzo 2007
Il programma di oggi prevede acclimatamento, con una gitarella di tutto
riposo e rientro a Namche per la serata: è necessario non salire troppo
velocemente di quota e se possibile non dormire alla quota più alta
raggiunta in giornata.
Yabab è ferreo ed estremamente scrupoloso a questo proposito, quindi oggi si
salirà a Syangboche ed all’Everest View Hotel, rinomato punto panoramico a
quota 3800 circa.
All’inizio il sentiero è asciutto, poi a Syangboche comincia la neve, che
copre completamente la vecchia pista di atterraggio. Qui una volta
atterravano anche piccoli aerei, ma ora è usata solo dai grossi elicotteri
russi che portano i rifornimenti all’albergo.
Attraversata la pista si sale sulla destra fino al crinale, poi si prosegue
a mezza costa fino all’Everest View Hotel.
Inutile dire che il panorama è maestoso: Everest, Lhotse, Ama Dablam in
prima fila, poi ancora una lista interminabile di 7000 e 6000 (Thamserku,
Kantega, Khumbila, Cholatse…)
Dopo le foto di rito scendiamo: il sole sta sciogliendo al neve, ed il
sentiero ora è molto fangoso.
Al ritorno a Namche Yadab mi conduce al piccolo e suggestivo monastero
buddista, con interminabile giramento di ruote.
Al pomeriggio ancora nuvole, e poi ancora neve. Speriamo in bene, che domani
si sale.
Domenica 11 Marzo 2007
Sveglia al solito presto, e alle 8:00 si parte.
Da Namche seguiamo il sentiero per il campo base dell’Everest, leggeri
saliscendi a mezza costa con panorami favolosi su Ama Dablam e Lhotse.
Dopo un paio d’ore sulla destra si stacca il sentiero, molto più stretto ed
accidentato, che conduce verso la valle di Gokyo, e qui si comincia a
soffrire.
La salita prima è ripida, in mezzo ad una splendida foresta, poi spiana
leggermente e si esce sotto il sole in un interminabile falsopiano alla fine
del quale si scorgono le casette di Mong-la, il nostro obiettivo.
Si tratta di un microscopico nucleo di una decina di casette (quasi tutti
lodge) appollaiate in una posizione incredibile in cima su uno sperone che
sporge dal fianco del Khumbila.
Yadab mi conduce allo “Snow Land”, il più alto di tutti: dopo pranzo prendo
alloggio nella camera 1, che mi promette un freddo cane, ma sicuramente un
panorama indimenticabile, visto che è d’angolo e completamente vetrata.
Purtroppo si sta levando un forte vento e come al solito il cielo si
rannuvola nel pomeriggio: ora fa veramente freddo.
Per concludere degnamente la giornata Yadab mi sprona a fare una
“passeggiata”: saliamo su tracce di sentiero per un centinaio di metri, fino
quasi a quota 4100 (Mong-La è a 3970), ma ormai siamo in mezzo alle nuvole.
Prima di cena arriva anche un taciturno giapponese con la sua guida:
ritornano da Gokyo, dove il turista è stato colto da fortissimi mal di
testa.
In questi casi la cosa più prudente da fare, se non si vogliono correre
rischi molto grossi è scendere di quota al più presto.
Alle 17:30 sono a letto, il gestore del lodge mi ha fornito una coperta
extra da aggiungere al mio sacco a pelo: con tutti gli spifferi che hanno
questi serramenti servirà.
Lunedì 12 Marzo 2007
Oggi il programma prevede una breve tappa fino a Dole, sempre per non
esagerare con i dislivelli.
Da Mong-La si scende ripidamente fino a Phortse Tanga in riva al fiume Dudh
Khosi, per poi risalire nel bosco fino a Dole, un solitario alpeggio a quota
4100 metri.
Ad un certo punto Yadab mi conduce fuori pista e mi indica una lontana
vetta, tozza ed azzurrina di neve: “That’s Cho Oyu!”.
Il mio secondo avvistamento di Ottomila! La Dea di Turchese sfavilla alla
testa della valle, circondata da minacciosi nuvolosi.
Il sentiero è tutt’altro che difficile ma cominciamo a trovare parecchia
neve (a Dole una coltre continua di circa trenta centimetri) ed io comincio
a sentire gli effetti dell’altitudine.
Un po’ di nausea, giramenti di testa e soprattutto le gambe molli: anche una
tappa facile come questa si è rivelata molto più impegnativa del previsto.
Ci fermiamo allo Yeti Inn, è ora di pranzo. La struttura è molto più
professionale ed organizzata di quelle abborracciate di Mong-La, in sala da
pranzo trovo anche una mini biblioteca in inglese, costituita da vecchie
riviste risalenti anche a dieci anni fa.
Come al solito al pomeriggio, dopo la consueta sgambata che mi porta fino a
quota 4250, arriva il maltempo.
Solo che stavolta si mette a nevicare di brutto, e quando vado a nanna sta
ancora continuando.
Martedì 13 Marzo 2007
Giornata tremenda: al mattino sta ancora nevicando, nella notte sono scesi
altri venti centimetri e la pista è coperta.
Partiamo alle 8:00 per un’altra tappa “facile” che si rivela tutt’altro che
tale.
Non prevedendo un clima simile (secondo la mia infaticabile guida sono
almeno dodici anni che non si vede tanta neve a Marzo) ho guanti caldi ma
non impermeabili, ed in poco tempo le mani sono umide e fredde sotto le
sferzate del vento che mi soffia in faccia aghi di neve ghiacciata. Ogni
tanto ci fermiamo per scrollarci la neve dalle spalle e dagli zaini.
Il sentiero è un saliscendi continuo a mezza costa, ed è stato battuto solo
da una provvidenziale carovana di yak.
Verso le 11:30 ci fermiamo a Luza, in mezzo alla tormenta, per un the
bollente. Asciugati i guanti sopra alla stufa (alimentata come sempre ad
alte quote con sterco di yak seccato al sole) ripartiamo approfittando di
una pausa della nevicata, ed in meno di un’ora siamo a Machhermo, una
manciata di alpeggi sparpagliati in una bella conca.
Sono completamente esausto, oltre che bagnato ed infreddolito.
Per fortuna Yadab mi conduce al più vicino dei lodge, il Tashi Delek, dove
arriviamo giusto in tempo per il pranzo che condivido con una coppia di
inglesi.
Ora ricomincia a nevicare: mi consulto con Yadab.
Se va avanti così non ha senso continuare a salire: sono assolutamente
esausto.
Forse vale la pena di pensare ad un programma alternativo alla salita del
picco panoramico di Gokyo Ri: in questa condizioni di innevamento non credo
di potercela fare.
Oltretutto nel retrobottega del cervello mi si agitano ricordi di articoli
letti in Italia, che narravano di quando (dodici anni fa) una nevicata
eccezionale obbligò il governo nepalese ad una gigantesca operazione di
recupero di centinaia di trekker rimasti isolati qua e là nella valle.
Yadab è visibilmente deluso dai miei dubbi: per una guida non riuscire a
portare il cliente alla fine del trek pattuito è una specie di onta
professionale.
Intanto nel pomeriggio mi faccio una scarpinata fino al più grosso dei lodge
locali, dotato di un telefono satellitare.
Per soli 5$ al minuto (!) riesco a telefonare a casa. E’ quasi un sollievo
trovare qualche prezzo esorbitante anche qui in Nepal: ci si sente un po’
più vicini a casa…
Verso sera smette di nevicare: domattina decideremo il da farsi.
Mercoledì 14 Marzo 2007
Dopo una notte piuttosto fredda (al mattino troverò l’acqua nella bottiglia
parzialmente gelata) prendiamo la decisione fatidica: si va avanti
nonostante stia continuando a nevicare leggermente.
Alle 8:30 siamo in marcia, ma sono già spossato, e procediamo lentamente
nella neve.
In mezz’ora circa attraversiamo la conca di Machhermo e saliamo dolcemente
verso il chorten sul crinale.
Appena arrivati sulla cresta veniamo però aggrediti da un vento fortissimo,
che mi soffia sulla faccia acuminati aghi di ghiaccio. La neve su questo
lato della montagna è molto più alta, accumulata dal vento, e il sentiero è
a malapena visibile. Procediamo per un altro po’ (il percorso è quasi
pianeggiante, a mezza costa) ma comincio ad avere freddo ed i piedi bagnati
nonostante le ghette.
Mi fermo, Yadab mi urla tra le raffiche “I’ll carry your backpack!”, ma io
scuoto la testa e rifiuto.
Se andrò avanti lo farò col mio bravo zaino in spalla, questione di dignità.
Intanto tiro il fiato, incerto sul da farsi: la strada per Gokyo è ancora
lunga, e la parte difficile deve ancora arrivare.
Inoltre con questo clima a Gokyo non ci sarà nulla da vedere (i laghi
secondo Yadab saranno così ghiacciati da poter essere attraversati a piedi)
se non salendo sulla cima panoramica di Gokyo Ri a quota 5400. Cosa che
nelle mie condizioni escludo di poter fare.
Ora nevica ancora più forte: ho deciso, si torna indietro, magari nei due
giorni “risparmiati” potremo fare un’escursione fuori programma a quote più
basse…
Rientriamo al Tashi Delek dopo le 11:00 in una tormenta degna dei libri di
Jack London: in 2:30 abbiamo fatto un percorso che normalmente richiederebbe
meno di un’ora. Yadab mi propone di passare un’altra notte a Machhermo, in
attesa che il clima migliori e che le carovane di yak aprano il sentiero.
Io invece sono sempre più convinto di scendere, visto anche il freddo cane
che si sta facendo sentire nonostante la cuoca continui ad alimentare la
stufa con il solito sterco di yak.
Verso le 13:30, approfittando di una pausa nella tormenta, cominciamo a
scendere faticosamente per Dole.
Naturalmente passate un paio d’ore uno splendido sole fa capolino tra le
nuvole.
Il panorama ammantato di neve fresca è stupendo. In cima alla valle il Cho
Oyu finalmente si concede ai miei occhi, magnifico e beffardo. Carovane di
yak salgono sbuffando, ed il sentiero ora è molto più agevole.
Verso la 16:00 siamo a Dole: ora il lodge è molto più animato, c’è parecchia
gente che sale e tutti mi chiedono informazioni sulla situazione a monte.
La neve ha fatto parecchie “vittime”: un tedesco tira un filo sopra la
stufa, ed in pochi minuti una ventina di calzettoni umidi sono stesi ad
asciugare.
Giovedì 15 Marzo 2007
A colazione gran consiglio strategico: dopo un po’ di consultazioni e di
tentennamenti decido di seguire il consiglio di Yadab: abbiamo ancora una
settimana, tempo a sufficienza per trasferirci sul sentiero del Campo Base
dell’Everest, visitare Tengboche con il suo monastero buddista, rientrare a
Namche, fare un’altra digressione per Thame, ed infine scendere a Lukla.
Intanto la tappa di oggi sarà Phortse, un villaggio piuttosto grosso posto
esattamente di fronte a Mong La: si scende fino al Dudh Khosi e poi si
risale per circa 300 metri sul lato opposto.
Inutile dire che la salita è un tormento: spompato come sono devo fermarmi a
riposare ogni cinque minuti. Non ho nessun sintomo di mal di montagna, se
non un fastidioso giramento di testa, ma i polmoni sembrano faticare a
succhiare aria dall’atmosfera tenue. E si che ormai siamo sotto i 4000
metri.
A Phortse Yadab mi conduce all’ottimo Peaceful Lodge, nuovissimo e molto
accogliente.
Decido di concedermi una ben meritata doccia: avverto il gestore che subito
mette a scaldare un pentolone d’acqua.
“Ten minutes, Sir!” mi promette.
Passano dieci minuti, poi altri dieci.
Da fuori sento martellare: mi affaccio e vedo il gestore ed il cuoco
impegnati con una piccozza ed un bricco di acqua bollente attorno ad un
gabbiotto di sassi e lamiera che sulla porta vede scritto “Shower Room”.
I due stanno alacremente scongelando la doccia: hanno dimenticato di
svuotare il tubo dopo l’ultimo cliente ed ora, come mi dicono sorridendo,
“It’s frozen solid Sir, just one minute Sir!”.
Meraviglie del Nepal!
Venerdì 16 Marzo 2007
E’ nevicato ancora, stanotte.
Solo un velo, ma quando si scioglierà renderà piuttosto scivoloso il
sentiero: meglio partire presto, perché la prima parte del percorso odierno
sarà piuttosto impegnativa.
Sulla carta infatti il tragitto tra Phortse – Pangboche – Tengboche
sembrerebbe di tutto riposo, ma come al solito quello che sembrerebbe un
percorso a mezza costa si rivela un’interminabile sequenza di saliscendi su
un sentiero piuttosto esposto, anche se mai realmente pericoloso nonostante
il ghiaccio prima ed il fango poi.
In compenso il panorama sulla valle del Khumbu è spettacolare: siamo sullo
sperone meridionale del Taboche, e la vista spazia dall’Everest al Thamserku
passando per Lhotse ed Ama Dablam.
Sull’altro lato della valle, poco sotto
di noi, inconfondibile la sagoma rossa del monastero di Tengboche.
Arrivati a Pangboche visitiamo il piccolo monastero, poi dopo uno spuntino a
base di Mars e Bounty (ormai è una settimana che ce li portiamo a spasso, è
ora di alleggerirsi) scendiamo al ponte sull’Imja Khola prima di affrontare
la salita finale. Vicino al fiume c’è qualcosa che si muove: oltre ai soliti
corvidi degli uccelli molto più grossi planano nella valle.
Yadab mi indica qualcosa sul greto del fiume, molto più in basso: c’è una
carcassa nerastra, parrebbe una capra sfracellatasi sulle rocce.
Intorno, oltre ai corvi, una mezza dozzina di enormi rapaci dalla testa
glabra. Tramite l’immancabile guida Lonely Planet li identifico come grifoni
dell’Himalaya.
Dopo una salita resa faticosa dal fango arriviamo alla melmosa spianata di
Tengboche: oltre al famoso monastero, il più importante del Khumbu, la
solita mezza dozzina di lodge.
Sfortunatamente allo Himalayan View capito nell’unica camera senza vista
sull’Everest! Ormai c’è parecchia gente che sale verso il campo base
dell’Everest, e tutte le altre camere sono prenotate da una comitiva
americana.
Nel pomeriggio visitiamo il monastero: siamo giusto in tempo per la funzione
religiosa del pomeriggio: lasciate le scarpe all’ingresso e depositato il
solito obolo nella cassetta delle offerte assisto alla cerimonia buddista.
L’ambiente, buio, profumato d’incenso e riecheggiante dei mantra ripetuti
con voce nasale dai molti monaci è estremamente suggestivo: non stento a
credere che molti occidentali sentano il richiamo della cultura buddista.
Prima di cena telefono a casa con il satellitare del gestore del lodge: 750
NRP
Sabato 17 Marzo 2007
Mi sveglio prima dell’alba, e nonostante il freddo pungente esco ad ammirare
lo spettacolo dell’alba sul Tetto del Mondo.
La mattinata è limpida, solo il consueto pennacchio di nubi si stacca dalla
parete Est dell’Everest investita dalle correnti stratosferiche.
Lentamente il pennacchio si colora di rosso sotto i primi raggi del sole,
poi tocca alla vetta, e poi al Lhotse
Uno spettacolo indimenticabile, che mi godo in perfetta solitudine
accompagnato solo dalla curiosità di due enormi mastini tibetani che mi
gironzolano intorno.
Dopo colazione ci mettiamo in marcia per fare ritorno a Namche Bazar: prima
discesa nel bosco, poi salita fino a riprendere il tracciato percorso
all’andata.
Il sole picchia forte, ed il vento si leva fino ad essere davvero
fastidioso.
Inutile dire che continuo ad essere incredibilmente stanco, e che saluto con
piacere le mura ormai familiari del Namche Inn, verso mezzogiorno.
Al pomeriggio doccia, telefonata a casa, e lavanderia: pantaloni e magliette
ormai hanno preso un profumo poco urbano.
Sono anche a corto di letture fresche: per fortuna a Namche c’è una libreria
dove si fa compravendita di libri usati, e faccio il pieno per i prossimi
giorni.
Domenica 18 Marzo 2007
Oggi si va a Thame, un villaggio a circa 3800 metri di quota in una valle
laterale del Khumbu.
Nonostante io viaggi senza zaino (visto che dobbiamo fermarci solo una notte
per poi tornare a Namche abbiamo lasciato parte del bagaglio al Namche Inn,
ed il resto lo porta il solito infaticabile Yadab) si procede a rilento.
In teoria si dovrebbe arrivare verso mezzogiorno, ma sono così affaticato
che gli immancabili saliscendi mi stroncano fin da subito.
Così, dopo aver costeggiato dei bellissimi muri mani (i classici “mucchi” di
lastre di pietra con incise preghiere buddiste)
siamo poco sopra Thamo, a
quota 3650, quando decidiamo di fermarci per pranzo.
Sono così esausto che fatico addirittura a mangiare, e mi siedo al sole
fuori dal lodge senza nome dove sostiamo.
Quando le forze sono parzialmente ritornate riprendo lentamente la marcia,
ed arrivo dopo l’ultima salita a Thame.
Il villaggio (una ventina di case sparse in una bella conca coperta di neve)
è molto tranquillo e, grazie alla presenza di una microcentrale
idroelettrica, ha tanta di quella energia che il lodge dove alloggiamo (Valley
View, molto accogliente) possiede addirittura una televisione.
Peccato che l’unico canale disponibile sia la MTV del Nepal…
Mi gusto la hit parade locale con i commenti di Yadab che, da buon ragazzo
di campagna, apprezza poco la musica di imitazione occidentale
(raccapriccianti i rapper nepalesi!) e giudica sconvenienti le ballerine che
mostrano impudiche le ginocchia.
In serata assisto per la prima volta al tramonto del sole dietro le
montagne: le cime di fronte a noi (i soliti Thamserku e Kantega) si colorano
lentamente di rosso, fino a scomparire nell’oscurità.
Un altro spettacolo magico: peccato che da alcune ore io sia afflitto da un
antipatico mal di stomaco.
Lunedì 19 Marzo 2007
Non è molto elegante raccontare delle proprie disavventure intestinali, ma
se questo è un diario allora dovete sapere anche che al mattino mi sveglio
afflitto da una fastidiosa diarrea. Il problema non è tanto nel malessere in
sé, quanto nella preoccupazione di avere contratto qualche forma batterica
(ho bevuto solo acqua depurata con lo iodio ed ho evitato qualsiasi cibo non
perfettamente cotto ma non si può mai avere la certezza di essere al sicuro)
e di dover rimanere bloccato per qualche giorno.
Per cui apro la mia fornitissima farmacia personale e prendo un Bimixin.
Dopo colazione saliamo al gompa (monastero) locale per un bel sentiero
panoramico e, dopo la visita e l’obolo di routine, riprendiamo la via di
Namche.
Nonostante i saliscendi mi sembrino più interminabili che mai rientriamo
alla base prima delle 14:00.
Al Namche Inn solo due ospiti: un’inglese ed uno svedese vittime del mal di
montagna, costretti a fermarsi per problemi di acclimatazione mentre
salivano verso Tengboche.
Col passare delle ore il lodge si fa però decisamente più affollato: con le
belle giornate gli aerei hanno scaricato vagonate di turisti a Lukla, ed ora
le comitive stanno salendo lentamente verso le quote più alte.
Ritiro la mia biancheria alla lavanderia (310 NRP), faccio una doccia (200
NRP) e telefono a casa (200 NRP).
Martedì 20 Marzo 2007
Namche addio! Alle 8:30 saluto la capitale degli Sherpa e comincio a
scendere il sentiero che mi era costato tanta fatica all’andata.
Prima del ponte sospeso
intravedo tra le nuvole, per l’ultima volta,
l’Everest: arrivederci!
Sono a pezzi, tanto che la tappa mi sembra più faticosa ora, in discesa, di
quanto non fosse stata due settimane fa, in salita, con meno allenamento e
nessuna assuefazione all’alta quota.
Arrivo comunque sano e salvo a Phakding, dove alloggiamo ancora al See You.
Giusto il tempo di posare lo zaino e si scatena un temporale che trasforma
il sentiero in un ruscello: il rumore della pioggia sul tetto in lamiera è
assordante.
E’ solo un assaggio di quello che succede durante la stagione dei monsoni,
che in realtà arriverà solo a Maggio/Giugno, intanto però già a queste quote
relativamente basse il terreno è completamente terrazzato, ed i campi
cominciano a risplendere di un verde incredibilmente brillante.
Mercoledì 21 Marzo 2007
Il programma prevede una breve tappa di tutto riposo fino a Lukla, dove
domani dovremmo prendere il volo per Kathmandu.
Invece Yadab, chiacchierando con un’altra guida, scopre che domani è
previsto uno sciopero dei trasporti. Conviene affrettarsi, arrivare a Lukla
il prima possibile e cercare di salire sul primo volo disponibile, prima di
rischiare di rimanere bloccati.
Tra scioperi e maltempo infatti l’aneddotica locale è piena di storie di
turisti rimasti intrappolati a Lukla per giorni e giorni, con tanto di risse
ed assalti all’ultimo aereo disponibile e scene degne dell’evacuazione di
Saigon.
Yadab allora scatta in avanti per andare all’ufficio della Yeti Airlines e
cambiare il biglietto (sarà la prima volta in due settimane che mi troverò a
camminare per più di mezz’ora senza il mio angelo custode). Appuntamento al
check-in dell’aeroporto.
In verità mi spiace andarmene in anticipo, soprattutto perché mi ero
riproposto di scattare un pò di foto agli aerei in atterraggio a Lukla e di
fare il pieno di souvenir.
Yadab arriva trafelato: i boarding pass ci sono, ma non è detto che ci sia
l’aereo perché come al solito le nuvole si stanno addensando in alto sui
monti.
Pazientiamo nella sala d’aspetto, unica compagnia due anziani neozelandesi
che rientrano piuttosto depressi, vittime anche loro del mal di montagna.
Quando ormai comincio a disperare ed a vedermi bloccato sine die a Lukla,
ecco che l’altoparlante comincia a gracchiare, ed in pochi minuti il Twin
Otter bianco verde e oro della Yeti atterra rombando.
In pochi minuti i passeggeri da Kathmandu sono sbarcati e noi prendiamo
posto a bordo.
Il decollo poi, visto che siamo solo quattro passeggeri contro i venti di
portata massima, si rivela molto meno adrenalinico del previsto: basta meno
della metà della pista perché il bimotore si libri sicuramente in aria.
A mezzogiorno l’aria calda ed inquinata di Kathmandu ci accoglie, con un
giorno di anticipo.
Riprendo alloggio al Garuda, ma stavolta chiedo una stanza più alta, al
quarto piano, che in effetti si rivelerà molto più tranquilla.
Poi con l’ausilio di Yadab provo ad avventurarmi negli uffici della Qatar
Airways per anticipare il mio volo di ritorno: visto che sono rientrato con
un giorno di anticipo sul programma che avevo stilato tenendo “di scorta”
quattro giorni per possibili ritardi nei voli interni mi ritrovo a Kathmandu
con poco da fare se non bighellonare.
Niente da fare: tutti i voli sono straprenotati, ed addirittura mi
consigliano di confermare il volo per evitare rischi di overbooking.
Tenetene conto!
Allora rientro da Asahi Treks e ci inventiamo un programma alternativo per
questi giorni imprevisti: minivacanza tropicale, con visita al parco
nazionale di Chitwan, ai confini con l’India.
Tre giorni e due notti, in lodge, con trasferimento in bus e varie attività
naturalistiche.
Il tutto, scegliendo l’alternativa più economica, viene 110 US$. Accetto.
Mi congedo da Yadab, scrivendo una meritatissima lettera di referenze sul
suo diario e lascandogli un baksheesh di 50 US$ (una mancia pari a circa il
25-30% della retribuzione è d’uso, e Yadab mi ha rivelato di guadagnare una
decina di dollari al giorno), e mi pare decisamente soddisfatto.
A cena decido di tradire il riso e le lenticchie e vado a cercare la
pizzeria Fire & Ice, dove spendo 440 NRP ma posso leggere i quotidiani
italiani inviati per fax!
Giovedì 22 Marzo 2007
Giornata dedicata al cazzeggio in Kathmandu: dopo aver preso accordi con
Fani presso Asahi Treks mi dirigo a piedi verso il tempio buddista di
Swayambhunath (meglio noto come Monkey Temple).
Mi perdo un paio di volte per vicoli e vicoletti ma per orientarsi basta
cercare un ragazzino in giacca e cravatta: sono gli inconfondibili studenti
delle numerose scuole private di stile inglese e naturalmente non solo
parlano un buon inglese, ma sono addirittura lieti di collaudare le proprie
nozioni linguistiche con uno straniero.
Attraversato il fiume Vishunumati, poco più che una cloaca a cielo aperto,
arrivo al Monkey Temple è in cima ad una ripida scalinata infestata di
mendicanti, venditori di paccottiglia e fruttivendoli (qui i fedeli
acquistano i vegetali da sacrificare sugli altari), ma dalla spianata si
gode un panorama d’eccezione sulla caotica metropoli sottostante.
L’ingresso costa, agli stranieri, le solite 100 NRP.
Pranzo con gli avanzi delle provviste da trekking (ormai sono scarso di
denaro liquido) e poi rientro con calma, godendomi l’ultima mezza giornata
in questa città straordinaria, insieme caotica e serena.
Venerdì 23 Marzo 2007
Sveglia, alle 5:30, nella hall trovo un ragazzino inviato da Fani per
guidarmi alla stazione dei bus.
E’ un torpedone turistico (quindi niente capre o galline a bordo, né
passeggeri sul tetto) piuttosto malandato ed affollato di turisti
cosmopoliti diretti a Chitwan.
All’inizio sono piuttosto perplesso all’idea di impiegare più di sei ore per
fare circa 150 chilometri, ma ben presto mi rendo conto che il traffico
caotico di Kahtmandu prima e le strade di montagna poi impediscono
performance troppo elevate.
In compenso il viaggio è assolutamente impedibile: sconsigliato nella
maniera più assoluta prendere l’aereo ed arrivare a Narayangarh in mezz’ora.
Vi perdereste una meravigliosa occasione per vedere (almeno dal finestrino)
il Nepal “genuino”, lontano dalle grandi mete turistiche.
A metà strada ci si ferma una mezz’ora in una località senza nome (forse
Benighat?) dove si può comprare qualcosa al coloratissimo mercato, o
addirittura pranzare al ristorante.
Sta di fatto che alle 13:00 arrivo al capolinea, a Jhawani, dove trovo ad
attendermi un giovanotto munito di una sgangherata motocicletta, che mi
carica con tutto lo zaino e mi porta al lodge Safari Wildlife, posizionato
sulle rive del fiume e quindi al margine del parco nazionale.
La mia stanza è dotata di zanzariere e di ventilatore a soffitto, nonchè di
alcuni grossi ragni dall’aria poco raccomandabile. In compenso la doccia è
riscaldata ad energia solare, quindi non teme i continui blackout.
Per l’occasione sfodero il mio guardaroba in stile tropicale: con scarponi
da trekking, calzettoni, pantaloni corti, camicia chaki, barba lunga sembro
la caricatura di un esploratore vittoriano.
Verso le 16 vengo accompagnato a visitare il centro di addestramento degli
elefanti e poi, con atmosfera in stile perfettamente coloniale, a prendere
una Coca Cola (25 NRP) sulle rive del Rapti, dove assisto ad uno
spettacolare tramonto.
Inutile dire che dopo Kathmandu e il Khumbu questo è un altro Nepal ancora,
rurale, caldo, umido ma ancora accogliente.
Mentre il solo scende dietro la giungla chiacchiero con la mia guida, che
tanto per cambiare è scontenta della monarchia, giudicata lontana dagli
interessi del popolo, e piena di aspettativa per i cambiamenti politici in
vista dopo la storica tregua tra governo e guerriglieri maoisti.
Intanto dopo anni di vacche magre, a causa della strisciante guerra civile,
ora pare che la macchina del turismo, che costituisce la principale
industria locale, stia ripartendo
Sabato 24 Marzo 2007
Oggi giornata da turista organizzato: se da una parte è piacevole avere la
giornata già preparata nei minimi dettagli dall’altra già mi manca la
libertà di decidere cosa fare delle mie ore.
Comunque le escursioni preparate dal lodge sono molto interessanti: al
mattino scendiamo in canoa il fiume per qualche chilometro (birdwatching
maestoso!) avvistando anche coccodrilli comuni e gaviali (i rari coccodrilli
d’acqua dolce).
Grazie al forfait delle due olandesi che avrebbero dovuto condividere
l’escursione con me sono solo con la guida e, sbarcati sulla riva
meridionale, abbiamo modo sulla via del ritorno di avvistare scimmie,
macachi ed anche un rinoceronte.
Al pomeriggio invece c’è in programma la gita a dorso di elefante.
La cosa
in realtà è meno Disneyland di quanto non appaia, perché effettivamente
l’elefante è un modo piuttosto sicuro per attraversare la jungla più densa e
per riuscire a vedere da vicino i rinoceronti.
Questi infatti si lasciano avvicinare parecchio dagli elefanti, senza
mostrare il minimo nervosismo neppure sotto le mitragliate delle macchine
fotografiche.
Domenica 25 Marzo 2007
E’ con un certo rammarico che alle 9:30 risalgo sul bus per Kathmandu:
l’assaggio del Nepal meridionale è stato molto intrigante, e senz’altro
meriterebbe molto più tempo.
Il viaggio è altrettanto estenuante che all’andata, ma all’ingresso in
Kathmandu si aggiunge un ingorgo indescrivibile.
Per motivo misteriosi poi il bus si ferma da tutt’altra parte, veniamo fatti
scendere ed invitati senza troppe cerimonie ad arrangiarci per ritrovare
Thamel.
Ormai però sono un turista abbastanza scafato, individuo un gruppo di
studenti di ritorno da scuola e mi faccio spiegare in inglese la via di
casa: non è un paio di chilometri a piedi che mi spaventa, ormai.
Vado a visitare Asahi Treks per manifestare la mia soddisfazione per
l’organizzazione del tour, firmo il registro delle referenze e mi vedo
omaggiato di una kata, la sciarpetta cerimoniale buddista.
Pago l’albergo, ceno con gli ultimi spiccioli, trattenendo solo lo stretto
necessario per pagare il taxi che domani mi porterà all’aeroporto.
Imballo malinconicamente gli ultimi souvenir: anche per quest’anno è finita.
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