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Quante volte capita
d’innamorarsi di qualcuno o qualcosa che agli occhi degli altri è
privo di attrattiva? Quante volte troviamo significative cose che per
molti non valgono gran che? D’altronde, si dice, sui gusti non si
discute. Be’ comunque capita, io mi sono innamorata del Connemara,
delle sue torbiere.
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Avete presente cos’è una
torbiera? Non tutti forse, non è comune da noi, è un ambiente tipico delle
regioni fredde caratterizzato da freddo e umido. In Irlanda la zona del
Connemara è aspra e selvaggia e dove non ci sono rocce e laghetti sottili
che diventano inaspettatamente profondi per il loro terso riflettere ci
son le torbiere.
La maggior parte delle torbiere nel Connemara non è rivestita né di
alberi, né di vegetazione, nè di arbusti a macchia, ma è una serie di
colline e vallate di terreni umidi, quasi acquitrinosi, con su erba più o
meno alta, quasi tutta giallognola e, dove si vede il terreno, esso appare
nero e zuppo. Le solite, terribili, strette stradine irlandesi che si
snodavano attraverso questo paesaggio desolato. Una desolazione marcata
dai pochi centri abitati o meglio gruppi di case, prive degli allegri
giardini che di solito incontravamo, alcune erano costruite come
leggermente rialzate, forse per evitare il contatto con il terreno così
umido con vicino immancabili, enormi cataste di legna.
Ogni tanto un gregge di pecore, ogni tanto un ruscelletto (o rigagnolo? )
che non riusciva a vincere quella piatta continuità e che peraltro si
individuava solo da lontano o da molto vicino, perché scorreva come in una
crepa del terreno, non c’erano sassi a delineare il suo letto, sembrava
che l’acqua neanche gorgogliasse.
Un paesaggio desolato certo, ma di grande potenza. Un fascino selvaggio e
duro come una sferzata. Ed io che ripetevo: “le torbiere, le torbiere,
guardate le torbiere!”. Guardate le torbiere? E che altro c’era da
guardare?
Un paesaggio assoluto: una superficie quasi uguale e il cielo. Come un
deserto, cielo e terra a confronto diretto, sconfinati, eterni e tu in
mezzo, piccolo, infreddolito, ammutolito.
Il vento, senza ostacoli, muoveva l’erba, onde d’erba che si susseguivano
ad incantare gli occhi di questa monotonia nuova e il cielo terso, pulito,
altissimo lassù, oppure gonfio di pioggia, grigio e basso, quasi
claustrofobico che gravava su quel paesaggio tutto uguale senza scampo,
che sembrava volersi unire alla terra quando questa fumava per l’umidità e
una bruma lievissima s’alzava dal suolo. E l’idea che il sole non ci fosse
mai, o che non bastasse, non riuscisse a scaldare quelle terre, ad
asciugarle, quasi a guarirle da questa loro solitudine eterna.
Era una sensazione avvincente, quasi ipnotica e non riuscivo a staccarne
gli occhi. Mi sembrava che se uno si fosse messo seduto in mezzo a quella
desolazione si sarebbe perso in quello spazio infinitamente uguale. A
contatto diretto con quelle due verità assolute, la terra e il cielo, si
sarebbe sentito davvero nudo con se stesso, senza più veli, senza più
mistificazioni, senza più barare con gli alibi.
E finalmente dopo le amare rivelazioni della sua vera anima si sarebbe
ritrovato. Dopo aver cercato veramente avrebbe trovato, trovato il
coraggio di continuare pur sapendosi così com’è. Perdersi è condizione
indispensabile per ritrovarsi, il nostro momento più vero è la solitudine.
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