Il giorno seguente, Melbourne si spalancava dinanzi al
muso della Snoopy Mobile con un intreccio di strade, sottopassaggi,
cavalcavia, grattacieli e parchi senza fine, rivelando però un look
tipicamente europeo. Dopotutto, Melbourne fu la prima grande città del
Downunder. Sviluppatasi già dagli inizi del novecento, traspirava quindi
tutta l’influenza che il vecchio continente aveva esercitato su di lei in
quest’ultimo secolo (più o meno) e a differenza della splendida e giovane
Sydney, questa sembrava proprio la sorella maggiore; più culturale, più
riflessiva e più caotica, più città, insomma.
Magicamente, il caso volle che vi approdassimo proprio nella settimana in
cui si svolgeva il Gran premio di Formula 1 e questa coincidenza portava ad
un unico e straordinario risultato: la città pullulava di gente da ogni
parte del mondo. Avvenimenti di qualsiasi genere (concerti, mostre,
esposizioni di automobili…) spuntavano ovunque: dalle piazze affollate agli
incroci principali (…e non vi dico le fighe!), alla stazione del treno o nei
grandi magazzini. E allo stesso modo, quindi, anche gli alberghi, ostelli,
Backpackers o Bed and Breakfast erano al completo.
Passammo così il pomeriggio a perlustrare Melbourne in cerca di una stanza
da affittare ma… niente… Melbourne, quella settimana, era come Betlemme la
notte del 25 Dicembre anno zero e noi non eravamo di certo i tre Re Magi…
Così, a marce basse e con gli sguardi incollati ai bordi delle strade,
arrivammo a S. Kilda, a ridosso della baia, dove sorgeva il parco che
ospitava il circuito di F1.
[]
Inutile dire che il quartiere esplodesse di
turisti in attesa di seguire il GP mentre le giornate favolose sfoggiavano
un cielo limpido e un vento tanto fresco che rendeva l’aria finalmente
respirabile e frizzante. Parcheggiammo l’auto in una traversa della via
principale, in un parcheggio pubblico defilato. Era quasi ora di cena quando
Mario si fermò davanti ad un lurido chioschetto con un sorriso a trentadue
denti: eravamo dinanzi al kebab shop che aveva elogiato per tutta la durata
del viaggio dai tempi di Byron Bay. In effetti, una volta gustata la
pietanza, Mario non aveva poi tutti i torti anche perché il padrone del
locale era un tipo abbastanza generoso sia per quel che riguardava il prezzo
che la quantità di carne che era solito caricare all’interno dell’involtino.
Sono sempre più stanco e non vedo l’ora di finire, di battere le ultime
lettere per dirmi: “Bravo, anche se ci è voluto un po’, alla fine, alla fine
hai scritto un buon diario di viaggio…”, ma poi mi rendo conto che c’è
ancora qualcosa da dire, qualche situazione che salta in testa, come un
grillo chiacchierone e così riprendo mestamente il tamtam solito sulla
tastiera del pc.
Eravamo dunque lì, sui marciapiedi di S. Kilda a mangiarci il nostro kebab
mentre pensavamo alla sera vicina senza nemmeno un posto dove dormire… e già
sapevamo come sarebbe andata a finire. La macchina l’avevamo parcheggiata in
un posto fintamente tranquillo e così la sfruttammo ancora come rifugio per
la notte. Ma Melbourne, in quel periodo dell’anno, volgeva all’autunno e le
tenebre, assieme alla luce, si portavano via anche una buona dose di caldo
che, giorno dopo giorno, sbiadiva inesorabilmente.
La sveglia mattutina era dettata più dal dolore fisico causato da posizioni
impossibili che dal rumore delle auto e dei furgoni che popolavano quella
zona. Lentamente, nell’arco di tre o quattro giorni appena, avevamo assunto
la fisionomia di veri e propri barboni. Dimagriti di almeno cinque chili, il
nostro abbigliamento era lo stesso da una settimana o più e ci nutrivamo ad
una media di una volta al giorno non perché avessimo problemi speciali, è
solo che eravamo giunti alla fine delle nostre spinte emotive, stavamo per
finire tutti i soldi, avevamo i muscoli a pezzi e, sinceramente, non
vedevamo l’ora di cambiare le carte in tavola, dare una mossa all’acqua
stagna dei nostri pensieri, vedere qualche faccia nuova, fare qualcosa di
diverso che ci tirasse su il morale perché da soli non eravamo più in grado
di fare niente.
Quello stesso giorno, ricevemmo una mail dal CAVALLARO che ci dava
appuntamento in un pub.
Allora la storia continuava e, in un certo senso, riprendeva proprio da
dove, tre mesi prima, era cominciata.
Ricordavo bene la faccia di Simo appoggiato al bancone del bar Gladesh; la
stessa faccia che, entrando in quel pub, rividi vicino al bancone con una
Fosters in mano e la gioia nell’abbracciarlo di nuovo fu estrema. Non ci
aveva salvato dal deserto, certo, non è questo che voglio dire. E’ più una
questione di testa.
Il CAVALLARO non era solo, era venuto giù col Books: personaggio altrettanto
fantastico, ragazzo di campagna, capelli lunghi e mossi, viso sbarbato, erre
moscia e magro come una canna di bambù. Era la prima volta che affrontava un
viaggio simile, non sapeva mezza parola d’inglese ed ogni cosa ai suoi occhi
suonava come un’epifania e vederli assieme assomigliava un po’ come tuffarsi
immediatamente in una pellicola di Toto’.
E il CAVALLARO: “Oh, ma come cazzo siete messi? Ma vi fate le pere? No, No…
non avete capito un cazzo!!! Oh, ma mica siete ancora nel deserto!!! Mica
potete andare in giro così qua. Dov’è che abitate?” “…da nessuna parte,
cioè, siamo arrivati due giorni fa e siccome siamo a S. Kilda ed è tutto
esaurito per il Gran Premio, stiamo dormendo in macchina…” “IN MACCHINA!!!
Ma voi siete fuori… Books, questi non hanno capito un cazzo. Voi stasera
venite a dormire da noi.”
Benissimo, il CAVALLARO e Books erano ospiti del governatore del Victoria
che li aveva invitati per la settimana delle corse a seguito di un progetto
che Simone stesso stava cercando di portare a termine proprio a Melbourne.
L’appartamento era a dir poco favoloso; situato in una zona tranquilla della
città, a pochi metri dalla stazione del treno e con tutte le comodità
immaginabili come piscina, sauna, ogni tipo di elettrodomestico, palestra,
etc. Praticamente una manna dal cielo…
Bene, la situazione era svoltata completamente, eravamo in un capitolo nuovo
del viaggio, molto più comodi di prima e in cinque.
Le giornate trascorrevano all’insegna del CAVALLARO che decideva
praticamente tutto: tempi e luoghi da visitare, cosa mangiare e quando, come
guidare e quando parcheggiare. Il motivo? Doveva portare a termine alcune
cosuccie in sospeso e certi business improbabili che lui stesso aveva
pianificato, come la distribuzione di macchinette automatiche per il caffè
espresso, la catena di negozi di gelati confezionati, la scuola di enologia
e chi più ne ha più ne metta… Mario, a volte, impazziva completamente sotto
la sua direzione anche perché non riusciva a capire fino in fondo la sua
carica esplosiva e così, ogni tanto, si accendevano delle frizioni che
venivano presto smorzate con una risata (più o meno).
In più c’era il Gran Premio da vedere. Noi avevamo già acquistato i
biglietti per il prato, Simone e Books no, ma sostenevano che, senza alcun
rischio, saremmo riusciti a penetrare fino alla tribuna centrale come niente
fosse. La sera stessa, per agevolarci l’ingresso nel circuito, bucammo le
reti perimetrali in diversi punti, tutto di soppiatto, come veri e propri
veterani dello scasso: Tenaglie e tronchesi alla mano, lacerammo i fili
esili del recinto che delimitava l’area del circuito così che, il giorno
seguente, avevamo più possibilità di sfuggire ai controlli della sicurezza e
far penetrare il Books e Simone. Naturalmente, tutto questo sforzo non
serviva assolutamente per poter accedere alla tribuna principale. Per quella
situazione si trattava di tirare fuori tutto il nostro estro, che non
mancava di certo.
Domenica, Gran Premio. Mario che scalpita come un bambino già dalla sera
prima, fissato per i motori e per la Ferrari in particolare. Il suo idolo
era quello scucchione di Schumacher e la Ferrari, in quella stagione, doveva
recuperare tutta la credibilità persa nei precedenti mondiali.
[] La giornata
non era delle migliori, le nuvole andavano e venivano e quando venivano
minacciavano forti piogge.
Noi entrammo, entrammo tutti grazie ai buchi fatti il giorno precedente,
entrammo in cinque, con due striscioni e tre biglietti in mano e mentre
vagavamo per il circuito già pensavamo a come poter accedere al paddock. Ad
un certo punto notammo che la rete che separava la tribuna ‘vip’ dal resto
del mondo comune costeggiava proprio due cabine dei servizi pubblici,
montate vicino a due grandi alberi fronzuti. Molto cautamente ci infilammo
fra le due casette e riuscimmo ad oltrepassare la recinzione senza che
nessuno, fra sicurezza, controlli o polizia, potesse accorgersene.
Ci mischiammo fra la folla repentinamente anche se eravamo ben
riconoscibili: uno dei due striscioni arrivava direttamente da Pesaro e
raffigurava il simbolo del cavallino con il logo del Fan Club Ferrari mentre
l’altro era un capolavoro sgusciato dai tre della Snoopy Mobile. Tutto fatto
a mano, era un panno di tre metri su cui avevamo disegnato sempre il
cavallino rosso su uno sfondo tricolore e un SIAMO SOLO NO1 sopra e sotto a
ricordare a tutti la nostra presenza lì e, allo stesso tempo, la
predominanza della casa modenese nel mondo dei motori… Con due catafalchi
del genere era abbastanza facile dare nell’occhio ma nessuno, stranamente
(ma poi mica tanto), ci faceva caso e così, piano piano, noi ci avvicinavamo
alla tribuna centrale, sì, quella lì, quella a dieci metri dai paddock e a
due dalla pole position, quella che un biglietto per un giorno costa appena
mille e cinquecento dollari (e noi cinque ne avevamo tre per tutto il
week-end da ottanta dollari)!!!
Ma era bene attendere ancora un poco, la tribuna era iper-perlustrata ed
entrare era un’utopia, soprattutto ad un’ora dalla partenza. Ma il tempo
volava (adeguatosi alla situazione) e già buona parte della gente aveva
occupato i propri posti nei rispettivi settori e la folla cominciava a
diradarsi. Nel giro di cinque minuti bisognava agire, e alla svelta. Eravamo
appoggiati alla rete che delimitava il rettilineo dello start e alla nostra
sinistra si ergeva proprio la ‘nostra’ tribuna. Allora Simo, con gli occhi e
le orecchie fuori dalla testa comincia a strattonare il telone nero che
funge da abbellimento sullo scheletro ferroso dell’impalcatura laterale
della tribuna stessa, ad ogni rombo di motore, così da nascondere il rumore
dello strappo e allargare quindi il buco. Prima, seconda, terza sgasata di
una macchina, mi giro e non vedo più il CAVALLARO, che è già in tribuna… e
allora, con fredda calma, a seguire tutto il resto del gruppo finché non
rimane che il telone nero, lacerato e sventolante. Guardarsi un Gp di F1 da
quella posizione era il massimo che si potesse chiedere da quella giornata,
poi il resto… chi se ne fregava. Schumacher vinceva davanti a Barrichello e
la folla in delirio elogiava il suo mito sotto il podio mentre all’ospedale,
un inserviente addetto alla sicurezza della pista, moriva dopo aver ricevuto
in faccia la ruota di uno dei tanti finiti fuori strada nel corso della
gara.
Il post-GP fu un delirio crescente di birre in un fantastico pub di S.Kilda
che si specchiava sulla baia, con le vetrate sul fronte e un giardinetto con
poltrone sul retro mentre dentro si preparava uno dei tanti concerti live
della stagione (Grand Silent System ad esempio)…
Quel Gran Premio fu l’ultimo grande sogno di quel grande giro per
l’Australia? Forse, forse sì, credo. Con il CAVALLARO e Books, durante
quella settimana a Melbourne, ne successero di tutti i colori; come quando
entrammo nelle grazie di una specie di ‘Padrino’ al quartiere italiano, o
quando conoscemmo un bravissimo ragazzo con grandi progetti futuri che,
frocio, si era invaghito di Mario e se lo voleva segare o, per ultimo,
quando proprio quella sera, ubriachissimi, tornammo a casa a piedi
attraversando tutta la città nella notte.
Io e Giovi avevamo già acquistato i biglietti per il treno che ci avrebbe
ricondotto a Sydney per il volo di ritorno, previsto dopo due giorni. Mario
aveva già programmato di tornare indietro, da solo, verso Mintabie e lì
fermarsi per un po’ di tempo per lavorare come meccanico ma, visto che anche
il CAVALLARO e Books puntavano per la stessa direzione, allora si offrì di
accompagnarli almeno fino ad un certo punto. Il giorno seguente, dopo aver
raccattato tutto dall’appartamento, ci salutammo mestamente con una serie di
birre gelate nel pub della baia di S. Kilda.
Ricordo come ora quel frangente poiché fu palesemente cabalistico. Senza
volerlo, Books rotolo sul cofano della macchina (parcheggiata a lato della
strada) in maniera ironica e scherzosa, ma nel farlo spezzò
inconsapevolmente il busto di Snoopy dalla carrozzeria del veicolo e io vidi
quel momento come un’ulteriore conferma della fine di quella (questa)
storia. Sull’Auto stavano infatti salendo due passeggeri che nulla avevano a
che fare con l’equipaggio precedente e il caso volle proprio che in quel
momento, e non in un altro, si rompesse la statuetta del cagnolino che aveva
sciato con noi per quasi ventimila chilometri ininterrottamente.
Il ritorno verso casa fu un lungo silenzio, spezzato da sporadici
avvenimenti di mezzo e una signora che, dopo aver sentito qualche aneddoto
della nostra avventura ci disse: “Ma perché non ne scrivete un libro?”
Eccolo. |