A metà strada decidemmo di fermarci. Ci catturò infatti
la semplicità di un villaggio perso fra le pieghe umide della costa,
sferzato dal soffio gelido dei venti del polo sud che accarezzavano
tremendamente una baia inquieta e infreddolita.
Le onde si spezzavano come lastroni di ghiaccio contro pareti spinose e
buie, a perpendicolo sull’oceano e il tonfo sordo dello scontro fra le
nature diverse era la melodia prima di quel luogo. Sinceramente non saprei
dire quando ne come ci arrivammo. Ricordo che, ad un certo punto, era troppo
tardi per ripartire. Rimettersi in viaggio di notte non era la scelta più
saggia: il pericolo dei canguri ce lo eravamo lasciati finalmente alle
spalle e la temperatura, di giorno, era ora molto più gradevole. Guidare
sotto la luce del sole ci dava inoltre la possibilità di gustare ogni minima
variazione del paesaggio che mutava repentinamente davanti ai nostri occhi.
Così, quella sera, restammo a dormire là, parcheggiati di fronte all’entrata
di un bar in attesa di un nuovo giorno. La nottata fu tremenda. Il freddo e
l’umidità che salivano dalla baia avevano ricoperto la Snoopy Mobile di uno
strato di condensa che ci era ancora sconosciuto. Le gocce rigavano i
finestrini scandendo caoticamente il ciclo delle tenebre mentre all’interno
i nostri corpi rispondevano a nevrotici scatti per scrollare di dosso quella
fastidiosa sensazione di gelo. Non ci fu alba più desiderata di quella.
Appena fuori dalle lamiere dell’auto ci riparammo dietro le vetrate del bar
per scaldarci con una tazza di caffè mentre la vita riprendeva con
stanchezza e routine.
Poi di nuovo in strada, mentre un sole impallidito faceva capolino dai
promontori rocciosi. Adelaide era definitivamente alle spalle, e nemmeno
mezza foto che la ricordasse, e non capisco ancora perché. Ad ogni modo
guidavamo, avanti e la radio era tutta contenta di poter finalmente
canticchiare qualche melodia nuova grazie al Sgt. Pepper Lonely Hearts Club
Band (Beatles) e al Born in the U.S.A. di Springsteen. A babordo la Great
Ocean Road: un tratto di strada spettacolare, una serpe d’asfalto che
ricalcava fedelmente i margini sinuosi di una costa nervosa, un lembo di
pizzo e merletti saggiamente ricamati dall’impeto costante delle maree. Le
onde salivano in spuma bianca come abili scalatori sulle pareti sgretolate
spruzzando di salsedine l’aria. La costa martoriata si lasciava flagellare a
ripetizione, quasi fosse un rito liberatorio, lo sfogo finale dell’ira del
mare che sputava fuori la sua voce e plasmava con cadenze millenarie gli
ostacoli che incontrava. E infatti il paesaggio somigliava molto ad un campo
da guerra. Avanzavamo quindi molto cautamente anche perché ogni luogo era
uno spettacolo naturale: voragini insospettabili si aprivano sotto i nostri
sguardi stupidi. L’oceano era penetrato ovunque, si era scavato tunnel e
cunicoli lunghissimi che solo raramente tornavano alla luce. Tutta ‘colpa’
del terreno, quel mix di roccia e materiali friabili gli avevano permesso di
costruire corridoi sotterranei che resistevano al tempo e alla fisica. Il
terreno più morbido se l’era divorato con gli anni, onda su onda, aveva
spazzolato tutto lasciando invece intatte e nude colonne di pietra che
ancora combattevano, giorno e notte, contro simili flutti. A gradi, lo
scenario assumeva uno stile ancora originale, sublime, accompagnandoci
all’apoteosi di quell’opera naturale. Dopo mezz’ora di cammino, infatti,
raggiungemmo la baia dei dodici apostoli; dodici fantasmi di roccia
abbandonati dal resto della terra ferma. Erosi dal vento, dal sale e dalle
onde stavano lì, soli, come anime in attesa di un corpo, sagome infreddolite
a combattere una battaglia persa, tanto l’oceano avrebbe vinto, lo sapevano
pure loro.[]
Dodici faraglioni in fila indiana, a dieci metri dalla costa, a
ricordare che la costa, dieci metri fa, era lì dove loro si trovavano, a
ricordare che le cose cambiano anche se non sembra, è solo una questione di
tempo, e perseveranza.[]
Parcheggiammo la macchina e a piedi raggiungemmo il precipizio. Il vento,
direttamente dal polo sud, ci sussurrava una stagione nuova, fulminea, e la
felpa di cotone che avevamo addosso non serviva a ripararci minimamente
dalle sue provocazioni, così passammo al vino rosso…
Bevevamo a grandi sorsi mentre il sole cadeva dietro gli abissi sputando
sfumature arancio contro la muraglia e i suoi guardiani spigolosi. Non ci
sono mai commenti per situazioni del genere, ognuno si era già perso nelle
sue divagazioni mentre il contrasto fra lo scuro della terra e la luce
riflessa contro le pareti verticali amplificava la bellezza del posto. Il
sole scomparì all’orizzonte nello stesso momento in cui il cartone del vino
si liberò anche dell’ultima goccia. Faceva abbastanza freddo, ora, e così
tornammo in auto per ripararci un po’ e rimetterci in viaggio. Ogni sosta
era un rito da consumare al 100% delle sensazioni in tempi relativamente
brevi; dopotutto non eravamo noi a dettarne i ritmi ma la natura stessa che
dava e toglieva a suo piacimento.
La via per Melbourne si accorciava ogni ora di più e in maniera inversamente
proporzionale, invece, aumentava la nostra frenesia nel pensare di
raggiungere in un momento solo due emozioni fortissime: Melbourne appunto e,
logicamente, l’arrivo del Cavallaro. Da quando lasciammo la Barossa, in auto
non si parlava d’altro. Io e Giovi eravamo in completo delirio mentre Mario
ci faceva mille domande al minuto per cercare di capire che tipo fosse il
nostro amico… Ciò che ho scritto all’inizio del libro furono esattamente le
stesse parole che dicemmo a Mario sul conto del CAVALLARO, ovvero niente di
preciso, sensazioni. |