Il clima era cambiato, lievemente ma era comunque
cambiato da quando, pochi giorni prima, lottavamo inesorabilmente contro un
mostro indefinito e soffocante. Dopotutto eravamo giunti al cospetto
dell’oceano, dove la costa frastagliata e pungente puntava il proprio
sguardo verso gli abissi del sud. Le nostre menti erano ancora molto
disturbate dall’esperienza ultima vissuta sulla Stuart Highway ma grazie
alla brezza mattutina e ad una colazione sostanziosa ci rimettemmo in sesto
per poter affrontare un nuovo ed entusiasmante capitolo della nostra
avventura inventata. Durante il delirio sulla superstrada, l’unica idea che
riuscimmo a partorire fu quella di trovarci un altro lavoro dalle parti di
Adelaide, in modo da poter sostenere ulteriormente le spese di viaggio che,
con l’avanzare del tempo, avevano prosciugato quasi tutti i nostri risparmi.
Adelaide era a soli trecentoventidue km da noi e in una mezza giornata o
poco più saremmo riusciti a raggiungerla senza problemi. Ma non era questo
il programma. A metà strada, infatti, si spalancava un’area sterminata di
valli e colline per la coltivazione di viti: la Barossa Valley.
Quella era la zona principale in cui i maggiori produttori di vino
australiano avevano fondato le loro cantine: vere e proprie ville immerse in
un verde acceso fra filari d’uva perfettamente allineati e simmetrici,
reticolo geometrico.
[]
Eccoci, eccomi (visto che sono solo, chiuso in una stanza), al
duecentoquarantaduesimo kilobyte a narrarmi questa storia… che storia…
mentre le dita si spostano a fatica da un tasto all’altro sbagliando vocali
e consonanti.
E mi accorgo di quanto sia stancante e forzato l’incedere di questa
narrazione, come se, involontariamente, il percorso mentale nel rivivere
l’avventura sia diventata improvvisamente l’avventura stessa. Non di meno,
quindi, l’entusiasmo iniziale nel descrivere sensazioni ed avvenimenti vari
ora si traduce in una fretta bambinesca nel voler finire, … come a dire
“BASTA DAI, E’ TEMPO DI TORNARE A CASA…” … “ABBIAMO VISTO ABBASTANZA”. E in
effetti il nostro viaggio era quasi arrivato agli sgoccioli.
Nella Barossa Valley trovammo lo sprint finale, il colpo di coda che ci
permise di guadagnare ancora qualche dollaro per concludere il tour. Fummo
ingaggiati in una cantina a conduzione familiare proprio durante il periodo
di vendemmia
[] ma, come al solito, venimmo cacciati in malo modo al terzo
giorno poiché, a loro dire, non eravamo tagliati per un simile lavoro. Fui
il primo a rifiutare una situazione al limite della follia; non ne potevo
veramente più di lavorare a quarantacinque gradi sotto gli occhi inquisitori
di contadini imperfetti ed invasati. Così il quarto giorno abbandonai il
lavoro nell’attesa che anche Mario e Giovi seguissero la mia scelta. Nemmeno
mezza giornata più tardi e tutti e tre ci eravamo licenziati. Avevamo
raccolto il gruzzolo necessario per poter dare da bere alla nostra carrozza
che volevamo portare almeno fino a Melbourne.
Melbourne…
Nessuno, credo, avrebbe mai immaginato che alla fine saremmo arrivati a
tanto. E pensare che quando divoravamo kebabs a Byron Bay e Mario ci
descriveva la capitale del Victoria sembravano sogni ad occhi aperti. No,
Melbourne diventava la prossima tappa e: un altro posto, un’altra scarpa, un
altro tempo.
Stand by, rewind.
Non ce ne andammo così rapidamente dalla Barossa, ne tanto meno da Adelaide.
In verità Adelaide era ancora un tabù da svelare che avevamo dimenticato in
un angolo dei nostri progetti quando decidemmo di avventurarci nel mondo dei
filari e delle vigne.
Quindi, prima di riprendere il cammino verso sud, ritornammo sui nostri
passi alla volta della capitale del South Australia.
Dalle colline lì attorno, la strada si allungava verso la pianura e più ci
si avvicinava alla città più essa ingigantiva fino a diventare una vera e
propria highway a sei corsie per due sensi di marcia. A destra e a manca
esplodevano fast food e super mega ipermercati di ogni genere o outlet di
varie dimensioni; poi era la volta delle prime abitazioni e monumenti di
dubbia antichità che facevano capolino fra una traversa e l’altra. Anche
Adelaide non ne poteva più dal caldo e le vie del centro erano completamente
spopolate. Ci si rinchiudeva negli uffici a lavorare o, chi poteva, fuggiva
al mare dove la brezza attutiva la pesantezza di un afa di fine estate.
Ma noi giravamo a trottola già da più di due ore e dell’oceano non se ne
intuiva nemmeno la presenza. Ovvio, l’oceano non era ad Adelaide, cioè si,
però no. In effetti la città si sviluppava in maniera anomala rispetto allo
standard. L’Adelaide che lavorava, che inquinava, che dormiva e tornava a
casa sorgeva a qualche km dall’Adelaide della vita in relax, dello shopping
e delle spiagge assolate. Bisognava rimettersi in macchina ancora una
ventina di minuti per raggiungere il porto e la baia dove sbocciavano decine
e decine di locali, ristoranti, negozi e piazzette di ritrovo.
Così si ricomponevano le due facce di una stessa, strana medaglia: una
realtà sorniona e stanca, dedita al lavoro e apparentemente annoiata che
però si riscattava approdando sull’altra sponda, ben più vivace e
propositiva.
Il clima, lì, era veramente ottimale e così, per due o tre giorni, ci
abbandonammo ai parchi verdi e alberati o alle spiagge popolose della baia.
Dormivamo all’aperto, in spiaggia o addirittura nel parco, dove la brezza
mattutina era meno violenta, dove il rumore dei trattori che ripulivano le
spiagge non interrompeva il nostro sonno… Il nostro sonno, si, quello che,
praticamente desideravamo riconquistare dopo decine notti mai quiete. E
nemmeno il soffice prato di Adelaide ci fu d’aiuto. Quel materasso naturale
nascondeva nel suo verde ventre un dispositivo automatico di irrigazione che
si attivava ogni mattino prima del sorgere dell’alba. Alle cinque, quindi,
eravamo già svegli e zuppi dalla testa ai piedi, sempre più stanchi e
nevrotici, in trepida attesa di un sole che ci potesse scaldare un po’.
Spendevamo le giornate a zonzo, senza obiettivi particolari, senza parlare,
giusto il gusto di godersi una situazione che divergeva nettamente da tutto
ciò che avevamo visto fino a quel momento. E proprio per questo motivo, il
giorno prima di ripartire, decidemmo di concederci una cena che da tempo
bramavamo; una bella cena a base di pesce, rigorosamente dall’oceano
australiano, in uno di quei locali distinti che si affacciavano sulla baia,
come tre innamorati che festeggiano il loro primo anniversario.
Chi fosse entrato in quel magnifico ristorante quella sera avrebbe assistito
ad una scena del genere: un ambiente piccolo ma aerato e fresco, tanti
tavolini occupati da signore e signori di classe, famigliole felici e un
mormorio di fondo che incorniciava la serata, e ogni tanto una risata
sguaiata o il brindisi di qualche avvenimento da sottolineare. Poi, proprio
nel mezzo di questa sala, fra le colone imbiancate e le vetrate lucide, tre
ragazzi in canotta, pantaloncini da mare e ciabatte infradito. Talmente
affamati che il cameriere non fece in tempo a portare il vassoio con il pane
che già era stato vuotato ad arte. Le loro pelli erano abbronzatissime o
sporchissime (dipende dai punti di vista) e alle gambe avevano ancora i
segni della salsedine del pomeriggio trascorso in spiaggia.
La situazione era esaltante, libera, talmente perfetta che finire vino e
pasto era allo stesso tempo un piacere e un dispiacere. Poi il solito giro
serale fra i negozi e le luci prima di salutare la prima vera città dopo
settimane di solo deserto.
Flash Back.
Il giorno prima di lasciare definitivamente i filari della Barossa,
telefonai a casa. Non che non l’avessi mai fatto durante i due mesi e mezzo
già trascorsi nel bush ma capitava comunque molto raramente. In fondo, era
più un tranquillizzare che tutto stava procedendo regolarmente, quasi un
dovere morale verso chi, a casa, stava in pensiero per noi. Non amo parlare
al telefono, quindi le mie conversazioni sono sempre molto frugali e,
apparentemente, indispettite. Così feci uno squillo per salutare i miei che,
come in ogni telefonata precedentemente fatta, volevano sapere come stavamo
e, soprattutto, quando tornavamo.
E chi lo sapeva?
Stavo già per chiudere la cornetta quando mio padre mi disse che il
CAVALLARO aveva appena preso un volo per Melbourne: Gran Premio di Formula
1.
Rimasi di sasso. Non ci potevo credere che, alla fine, proprio colui che ci
aveva lanciato verso questa avventura ci avrebbe, simbolicamente, atteso
alla fine del viaggio. Avevamo così una nuova spinta, un motivo per
raggiungere Melbourne al più presto. La strada che ci condusse alla
metropoli, però, era una strada magica e incantata. Il tragitto che unisce
Adelaide a Melbourne è un percorso frastagliato che si incunea lungo le
sbavature aguzze della costa rocciosa del Victoria. Noi percorrevamo quel
tratto proprio quando l’estate abbandonava il campo lasciando libero spazio
alla brezza pungente dei venti polari che preannunciavano un altro autunno.
Lo scenario si deformava rispetto ai paesaggi di una settimana prima.
Cambiavano gli alberi, le case; i canguri erano sempre meno presenti (e
quindi sempre meno pericolosi) mentre ci aspettavamo di incrociare, da un
momento all'altro, qualche koala. |