Grande calma, apparente, ma grande calma. E ognuno che
pensava ai cazzi propri, come se non fosse successo nulla, come se quella
sosta potesse essere considerata alla pari di tutte le altre. Ogni tanto
dalla bocca di qualcuno usciva un commento, più o meno malinconico su
Mintabie, per aggrapparsi, almeno con la memoria, a quei tre giorni appena
trascorsi.
La nostra rossa si faceva spazio lungo la via che ci avrebbe rimesso sulla
Stuart Highway per proseguire il cammino che ci eravamo prefissati, ancora
verso sud. Dove, di preciso: bò, ma di sicuro verso sud. L’atmosfera, dentro
l’abitacolo, non era di quelle migliori perché, in fondo, si avvertiva un
senso di disagio, un malessere inspiegato ed irrisolto che aleggiava nelle
nostre teste rimbalzando poi da sedile a sedile. Come dire, non so, era una
sorta di sklero che ci portavamo dietro da tempo; un po’ dovuto allo stress
del viaggio, un po’ perché erano già due mesi (o poco più) che vivevamo a
stretto contatto sempre, ma soprattutto perché la decisione di andarsene da
Mintabie era stata presa d’istinto, come era stato fatto in ogni altra
precedente situazione. Solo che quella volta c’erano di mezzo i sentimenti e
qualcuno, lì a Mintabie, ci aveva lasciato un po’ di se stesso come mai
prima era accaduto.
Ad ogni modo, anche se più lentamente rispetto alla solita tabella di
marcia, la Snoopy svaniva a sud sul solito asfalto bollente della strada
scaricando dai finestrini le note di qualche canzone che la radio proponeva.
Mintabie ci aveva regalato tanti ricordi, molti dei quali erano
irrimediabilmente legati ai brani che, la sera, ascoltavamo a casa di Alan
fra un sorso di birra e qualche sigaretta. Fra i dischi più ascoltati
c’erano John Lennon e Macy Gray, che quell’anno lanciava il suo primo album:
“On how life is”.
Ebbene, la musica di Macy Gray ci accompagnò per tutto il tempo avvenire da
quando, alla prima sosta di carburante, comprammo la sua cassetta. Ciò non
bastò comunque a sciogliere il gelo che si era stratificato in noi. Mario
era sempre pronto a lanciare il sasso, a tentare di fare scattare
un’improbabile molla: il ritorno repentino verso Mintabie, la sua gente, la
sua solitudine. Mario, a dire il vero, ci sarebbe rimasto a vita, fosse
stato per lui, anche perché aveva fiutato la possibilità di stabilirsi lì
come meccanico nell’officina dimessa di Max riparando le auto e i trattori
degli abitanti di quella minuscola cittadina. La sua idea non faceva una
piega e lui aveva tutte le ragioni per spingere affinché si facesse
inversione per tornare gloriosamente sui propri passi.
Io, invece, ero del parere opposto per mille ragioni e per nessuna in
particolare. Ciò che mi spingeva a rifiutare la proposta di Mario era
semplicemente il fatto che, fino a quel momento, avevamo sempre continuato
per la nostra strada, senza mai voltarci indietro a rimuginare sui se o sui
ma. Certamente molteplici erano le cause per cui io preferivo andare avanti
e Mario no e non starò nemmeno qui ad elencarle; non me le ricordo di certo,
o forse si, ma non è questo il punto: il punto è che ognuno di noi, dentro
se stesso, sapeva di avere ragione sull’altro e nessuno voleva ascoltare. In
mezzo a tutto ciò Giovi fungeva da bandiera e in base alle motivazioni che
l’uno o l’altro ribadivano, lui assecondava perché, in effetti, era
impossibile dare ragione o torto ad uno piuttosto che all’altro.
Il paesaggio circostante, nel frattempo, smorzava gloriosamente qualsiasi
accenno di nervosismo e così, non appena ci si rendeva conto di esagerare
con le parole, le conversazioni morivano in una bolla di sapone per poi
rinascere dal nulla venti km più avanti. Intanto avevamo già percorso una
bella striscia di strada e gli unici rumori che si potevano udire erano
quelli emessi dalla radio quando Giovi sfilò dalle tasche una bustina di
plastica ben accartocciata.
Quei tre grammi di speed (mix anfetaminico di colore beige) li avevamo
ereditati da Alan che ce li aveva raccomandati calorosamente nel caso in cui
avessimo voluto provare a raggiungere la costa sud nell’arco di una notte:
settecento km.
Il sole era già adagiato sulla linea dell’orizzonte quando a turno
sperimentammo quello che ogni bravo camionista di Road Trains fa ogni volta
che si mette alla guida del suo bisonte per attraversare in ventiquattr’ore
tutto il deserto (Adelaide-Darwin)… E in fondo anche noi, a modo nostro, in
quei momenti eravamo mitici camionisti con alle spalle sette rimorchi di
ricordi ed esperienze strampalate che non riuscivamo nemmeno a
metabolizzare. Lo speed fece effetto mezz’ora dopo in una maniera esplosiva
e, inizialmente, esilarante.
Le parole sgorgavano senza freni fuori dai denti, ognuno parlava a velocità
supersonica senza comunque riuscire a sostenere il ritmo dei propri pensieri
che viaggiavano su frequenze troppo diverse e molto più dinamiche.
Fisicamente eravamo in un punto della Stuart Highway, seduti sui sedili di
un vecchio station wagon rosso a confabulare animatamente. Mentalmente la
nostra testa aveva già fatto quattro o cinque volte il giro del mondo, aveva
già capito da almeno mezz’ora tutto ciò che sarebbe scaturito dai pensieri
degli altri due nella mezz’ora successiva mentre stavamo volando a velocità
estreme su un veicolo rosso abilmente trainato da un cane simpatico e
silenzioso.
Alle ore sei del mattino seguente eravamo già a Port Augusta, straziati nel
corpo e nell’anima da una notte fin troppo nevrotica. Non avevamo fatto
altro che gridarci addosso tutto lo stress accumulato fin lì, nascosto
dietro l’alibi di una possibile rimpatriata a Mintabie che io rifiutavo a
prescindere…
Mi svegliai, come sempre, prima degli altri. Praticamente non dormii affatto
visto che alle otto ero già fuori dall’auto, con i piedi a penzoloni sul
ciglio del molo ad osservare i gabbiani o qualche barchetta ancorata a
largo. Tremavo come una foglia, avevo i nervi a fior di pelle
dall’esperienza della serata precedente. Non capivo veramente cosa fosse
accaduto a tutti e tre mentre sfrecciavamo nella notte più buia dal deserto
alla costa… Avevamo litigato? Avevamo solo straparlato?? Gli altri due ce
l’avevano forse con me??? Aveva senso, infine, pensare a certa cose?
Il sole era già bello alto nel solito splendido cielo blu e parlare di
nuvole era semplicemente utopistico. Avevo una mela in mano e ogni tanto la
addentavo per restituire una parvenza di normalità al mio corpo elettrizzato
che reagiva in maniera convulsa ad ogni piccolo movimento. Ma che cazzo era
successo in quella traversata allucinata? Bo’, l’unica parola che la mia
mente poteva partorire era proprio e solo quella: bo’! Eravamo mentalmente
arrivati alla fine di una storia? Avevamo forse concluso un ciclo prodigioso
che ci aveva condotto all’esaurimento mentale esasperando il carattere e
l’armonia del gruppo, come tre magneti che tentano irrimediabilmente di far
aderire fra loro i tre poli positivi?
Port Augusta riapriva gli occhi sotto un sole timido e luminoso. Era
domenica e la quiete pervadeva le strade della città mentre anche Giovi e
Mario, che nel frattempo erano scesi dall’auto, si guardavano attorno con
fare smarrito, quasi ignorando in che modo fossimo approdati sul bordo di
quel molo.
La Snoopy riposava stanca e sudicia al centro del parcheggio. Era stata una
regina, una vera e propria carrozza magica che aveva attraversato il deserto
incandescente senza eccessivi problemi e adesso, spogliata dei suoi padroni,
era ancora lì: sportelli aperti e ruote sterzate quasi a chiederci di
partire di nuovo. |