Quei pochi giorni in cui visitammo Alice Spring, una
mattina, incontrammo a colazione un ragazzo di trent’anni circa che ci diede
alcune dritte sui posti più caratteristici da vedere e le cose da
sperimentare durante l’ancor lungo percorso verso sud.
Fu lui, ad esempio, a consigliarci di non salire su Uluru. Fu lui a
spiegarci a grandi linee il punto di vista aborigeno, la religione e i
costumi di quel popolo così affascinante; lui che era professore di inglese
e aveva deciso di insegnare la lingua proprio ai neri australiani affinché
si potessero inserire nel nuovo sistema di vita non per abbandonare la
propria ma, bensì, per sapersi divincolare dalle mille trappole
costituzionali e burocratiche della civiltà bianca.
Era seduto al tavolino di un bar nella via centrale, una sorta di
chioschetto riparato da tettoie in bambù e sedie in vimini (o perlomeno così
ricordo). Assieme a lui sedeva la figlioletta e sotto il tavolo un cane a
tre zampe. Ci raccontò come la quarta gli fosse stata mangiata da un
coccodrillo quando due anni prima, durante un periodo di permanenza dalle
parti di Darwin, il cane si tuffò per un bagno rinfrescante fra le torbide
acque di un torrente. Poi tutto volse nel migliore dei modi (o alla meno
peggio…) e il cane, a parte la zampa, riuscì comunque a sopravvivere al
brutto incidente.
L’uomo era un tipo sereno, solare, e Mario trascorse una buona mezz’oretta
in sua compagnia e assieme a Giovanni mentre io vagavo su e giù per le vie
scrutando facce nuove e incrociando sguardi interrogativi.
Ebbene, la conversazione sfociò naturalmente sulla nostra avventura e sul
percorso che ci attendeva. La prossima tappa era stata già quasi prefissata
per Coober Pedy se nonché fu proprio il professore a consigliarci di passare
prima per una minuscola località dell’interno chiamata Mintabie.
Dalla descrizione che quel tipo ne faceva, Mintabie sembrava essere il vero
specchio della vita del bush, un villaggio abitato da un esiguo numero di
uomini (e ancor meno donne) tutti dediti a scavare nel sottosuolo per
trovare qualche pietra di opale. C’è da dire, in effetti, che tutta l’area
compresa tra Alice Spring, Coober Pedy e oltre è una miniera di giacimenti
di questo minerale rarissimo e colorato che si sviluppa chimicamente solo a
determinate condizioni climatiche e di terreno. E’ naturale, comunque, che
nessuno abbia mai sentito nominare Mintabie, non perché sia inferiore come
numero di abitanti alla cugina rivale Coober Pedy ma principalmente perché,
a differenza dell’altra, Mintabie non affonda le sue fondamenta ai bordi
della Stuart Highway ma a qualche km da lì, verso ovest, verso l’interno,
proprio vicino alla solitudine.
In realtà, poi, Mintabie non è affatto un piccolo isolato villaggio nel bush,
è semplicemente uno sputo di abitazioni sparse a vanvera fra voragini di
miniere di opale che trovano il loro fulcro spirituale nel pub dello spiazzo
principale.
Bisogna guidare quasi mezz’ora, facendosi spazio fra le dune rosse e gli
spini dei cespugli, prima di intravedere qualche tetto. La stradina
conduceva naturalmente al pub e fu proprio di fronte a quella sorta di
capannone in lamiera che noi la parcheggiammo.
Scendemmo stanchi e sudati, con in testa tanti interrogativi a cui non
sapevamo dare una risposta. Sembrava quasi di essere atterrati in una città
fantasma, il sole bruciava letteralmente sulle nostre spalle sebbene ci
fosse un fievole soffio di vento ad allietare la sgradevole sensazione di
svenimento che provavamo. Non si udiva nessun altro suono se non quello di
qualche ruspa in lontananza ancora dedita a scavare sotto, sempre più in
fondo.
Allora bucammo dentro al pub, unico rifugio fresco e ombreggiato, per
riempire lo stomaco e bere qualche birra gelata. Appesi al bancone come
salami barcollanti stavano alcuni uomini robusti, bruciati dal caldo e dal
lavoro che, berretto ben infilato ancora in testa, si girarono incuriositi
non appena sentirono aprire la porta. Il locale era spoglio, essenziale,
nudo alle pareti e allestito in maniera pessima. Squallore unico. Dopotutto
era anche comprensibile; è facile capire come la necessità spesso vada oltre
lo stile e come in questo caso, i tavoli, le sedie e addirittura tutta la
struttura del bancone erano sicuramente stati acquistati perché i meno
costosi di tutta l’Australia. La sala era completamente vuota. Sul suo lato
destro erano disposti, in modo casuale, alcuni tavolini in finto legno e
sedie dello stesso modello. L’ala sinistra era invece destinata ai giochi
come il biliardo, le freccette e, castigato in fondo alla parete più estrema
ma non per questo ultima ruota del carro, l’immancabile Juke Box. Al di là
delle aspettative, l’atmosfera era comunque rilassata e rilassante e presto
i primi sguardi incuriositi si tramutarono in occhiate di accoglienza. Poi,
una volta ordinato il secondo giro di birre, quel gruppetto di signori che
prima dondolavano da una parte all’altra del bancone si sedette al nostro
stesso tavolo, pieni di domande sui come e sui perché fossimo giunti proprio
fin lì, nel loro piccolo e sconosciuto anfratto.
Molti avevano parentele di secondo, terzo o addirittura quarto grado con
qualcuno in Italia. Alcuni erano emigrati là da piccoli, altri avevano
tentato una carta, una come tante altre, altri semplicemente ci erano nati e
basta.
Durante la conversazione con questi personaggi saltò fuori che il
proprietario dell’alimentari di Mintabie era proprio un italiano verace (o
almeno così dissero), catapultato in quella realtà con moglie e figlio. Ed
era pure il sindaco della comunità.
Max, questo era il suo nome, si era così creato un piccolo regno costituito
dall’alimentari appunto, la gestione (col figlio Alan) di un appezzamento di
terreno per la ricerca di Opale, un capannone adibito a officina ma
momentaneamente chiuso e non per ultimo il ruolo che ricopriva all’interno
del sociale come sindaco. Max era una persona rispettata, leale e brillante.
Così lo descrivevano i suoi compaesani e così, in effetti, noi lo
conoscemmo.
La sua famiglia viveva in una fra le tante case della zona, non distante dal
pub e adiacente allo stesso alimentari mentre Alan (il figlio) si era
stabilito in una casa più appartata e vicina alle miniere in cui lavorava,
nascosta fra colline di ghiaia e i tunnel degli scavi freschi.
Non ho bene in mente come e quando ci presentammo…
…Anzi si.
Era sera. Non ci eravamo mossi dal pub ed eravamo esausti. Avevamo trascorso
tutto il pomeriggio a conversare del più e del meno con chiunque varcasse
quella soglia e ogni nuova faccia era un’altra birra. Nella carrellata di
volti, uno in particolare ci affascinò, per il suo carisma, la sua età, ma
soprattutto la sua storia.
Bruno, un signore prossimo ai sessanta anni, viveva e lavorava a Mintabie da
almeno quattro lustri. Era nato in Jugoslavia qualche anno prima della
seconda guerra mondiale, alla fine della quale si riscoprì orfano e povero,
abbandonato a se stesso; lui e suo fratello minore. Il corso delle cose,
poi, volle che anche i due fratelli si dividessero fino a perdersi di vista
per sempre. Mentre il più piccolo finiva in un collegio per poi resuscitare
economicamente in Italia, il cammino di Bruno fu molto più burrascoso e
affascinante allo stesso tempo. Partito dalla sua terra come muratore e
garzone, si ritrovò poi a lavorare, durante l’adolescenza, in giro per
l’Europa intera in un circo fra i tanti che colorano ancora i sogni dei
bambini. Ad un certo punto, poi, Bruno lascia il circo e l’Europa; non
ricordo se a causa di qualche femmina o per pura scommessa di vita. Fatto
sta che tagliò tutti i ponti con quella realtà per catapultarsi in un’altra,
completamente nuova: l’Australia. Non appena atterrato, iniziò subito a
cercare un lavoro che gli permettesse di vivere adeguatamente trovando un
impiego come cacciatore di coccodrilli che lo tenne impegnato per diversi
anni prima di trasferirsi a Mintabie dove, seduto al tavolo con una birra in
mano, finiva di raccontarci la sua carriera come cercatore di Opale. Era
proprio una persona gioviale anche se un po’ malinconica. Ogni tanto parlava
di suo fratello, con amarezza, e ripeteva in continuazione che prima o poi,
un giorno, si sarebbero riabbracciati come da piccoli. Ogni ruga del suo
volto parlava di ostacoli superati e quei due occhi di ghiaccio a volte
tradivano una certa nostalgia di superficie che era difficile nascondere,
anche a quell’età.
Eravamo dunque seduti da un pezzo quando arrivò Max, personaggio brizzolato
sulla cinquantina, tonico e sorridente. Ci venne subito incontro e
altrettanto velocemente facemmo amicizia passando così altro tempo a
discorrere del più e del meno, della vita a Mintabie, mentre si faceva sera.
Logicamente noi non avevamo alcun luogo in cui dormire e la tenda, in una
zona infestata di scorpioni e vipere varie, non era certamente indicata.
Così Max ci chiese di intrattenerci anche per cena garantendoci pure un
posto sicuro per la notte. ci presentò la moglie e il figlio Alan (che era
appena tornato dalle cave) che ci avrebbe ospitato a casa sua per tutto il
tempo che volevamo.
La loro ospitalità andò ben oltre il piatto di pastasciutta. Alan si offrì
di dormire sul divano lasciandoci così la possibilità di riposare almeno per
una notte su un letto vero. La sua casa, dispersa fra le colline di minerali
dell’outback, era proprio accogliente anche se un po’ in disordine ed era
attentamente sorvegliata da un cagnone che, principalmente, aveva come ruolo
quello di tenere ben lontani rettili quali vipere, scorpioni o iguane.
Max, dal canto suo, aprì le porte al suo supermarket deliziandoci di ogni
ben di Dio proveniente direttamente dall’Italia. E così, nel bel mezzo di
una cittadina di poche anime sperduta nel bush dell’entroterra, potemmo
degustare formaggi e insaccati che si trovano a malapena nel bel paese.
Tutta la comunità, inoltre, si adoperò per farci sentire come a casa tanto
che, il giorno della nostra dipartita, venne allestito un banchetto nello
stanzone adiacente al pub a base di canguro e maialino in porchetta. Ora,
ricordare quei momenti mi è un po’ difficile poiché provavo sensazioni
opposte per ogni situazione in cui mi trovavo. Quando festeggiammo, quel
giorno, erano già trascorse due notti a Mintabie. L’atmosfera non poteva che
essere delle migliori anche perché, se non eravamo a casa di Alan o Max,
occupavamo le giornate fra le voragini e le ruspe delle miniere di Opale
alla ricerca di qualche pietra nascosta o dimenticata. La ricerca,
purtroppo, non era poi così facile e scontata e ci ritrovavamo, spesso, con
una manciata di sassi e niente di più. La sera, al ritorno verso il pub, Max
prendeva con sé tutte le nostre pietruzze e le analizzava attentamente per
vedere se, fra cento, almeno una poteva essere una vera gemma di Opale.
Non so che dire, quei due o tre giorni a Mintabie tornano a me come una
parentesi di foschia, una nube a se stante carica di ricordi forti e
sensazioni indefinite. Mintabie ci aveva colpito per la sua spudorata
accoglienza, per il carico di umanità e solitudine che rigettava su chiunque
si fosse avvicinato a quella realtà e così noi tre, abbagliati da tutta
questa passione di vita, vivevamo in un’anfora di imbarazzo e devozione
costante nei confronti non solo di Max e Alan ma pure di tutti gli abitanti
di quel minuscolo villaggio. E questo sentimento di riconoscenza si fece
sempre più forte (almeno in me) quando venne appunto allestita la cena di
quella sera.
Con quel gesto, l’idea di andarcene da Mintabie per continuare il nostro
cammino non venne abbandonata ma fu rimandata semplicemente di qualche ora.
Invece di partire dopo cena, decidemmo di restare una notte ancora per
salutare poi tutti la mattina seguente alle prime luci dell’alba.
E così fu, con un nodo alla gola e tanti pensieri contrastanti in testa…
Per un bel pezzo di strada nessuno parlò. Avevamo gettato gli occhi fuori
dall’auto, a ruzzolare ai margini della carreggiata, senza un senso preciso
e tanti se che non trovavano pace. |