CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

11. RINASCERE DENTRO

Dopo Alice Spring avevamo, di certo, un’unica tappa obbligata nella nostra traversata verso sud: Uluru.
E Uluru, agli occhi di molti/troppi che lo conoscono da turisti, dice poco se non addirittura nulla. In fondo non è altro che un gigantesco sasso colore arancio (al tramonto) di dimensioni abnormi e con qualche graffito sparso qua e là a testimonianza di una civiltà ormai spazzata via dal corso degli eventi storici che si susseguirono dagli inizi del ‘900 ai giorni nostri. Questo è quanto, per molti…
Per arrivare ad Uluru bisogna fare un po’ di strada; quasi quattrocento km di breccia diritta e silenziosa, che filtra nel ventre del deserto verso ovest, fra arbusti secchi ed appuntiti, rettili di vario genere. Bisogna avanzare cauti, soprattutto se si guida una macchina come quella che avevamo noi, soprattutto perché non è da considerare solo la meta ma tutto ciò che la precede, soprattutto se è notte. Ogni minimo dettaglio racconta già qualcosa di ciò che vedrai, persino la tiepida brezza del vento di sera.
Una volta lasciata Alice si continua blandi, sempre in direzione sud, finché non si incontra la deviazione, ad angolo retto, che porta dritti al sasso. Non si può sbagliare, anche perché al crocevia si erge una sorta di ultimo avamposto per fare incetta di viveri, acqua e carburante. Noi arrivammo in quell’area di servizio verso cena, ci riempimmo lo stomaco di bistecche, patate fritte e birra e ci rimettemmo sulla carreggiata alla volta di Uluru (Ayers Rock è il nome bianco).
Quando uscimmo dal locale per ripartire sulla Snoopy Mobile, il giorno si era già spogliato di quasi tutte le sue luccicanze tanto da lasciare un flebile ricordo all’orizzonte sottoforma di una striscia fuxia-arancio impastata e indefinita. Le ombre si erano già allungate a dismisura e lentamente prendevano in mano le redini del gioco, salivano in cattedra a declamare l’avvento delle tenebre, l’oscurità ambigua di mondi sconosciuti che col passare dei minuti risorgevano da sotto terra o tornavano sotto terra. La luna si celava timida dietro una patina spessa di nero rimandando ai giorni futuri la luce piena del suo volto; 12 febbraio 2001. Ai lati della carreggiata si intravedevano, a tratti, le sagome di branchi di canguri, o gli occhi gialli di uccello, o semplicemente le braccia nervute e le chiome crespe di arbusti spinosi. Alla velocità media di sessanta km orari sembrava un viaggio interspaziale, con il cielo limpido e nero, schizzato come una parete di chiazze biancastre, cielo bassissimo, strada drittissima.
Ancora dopo due ore non si intravedeva niente, assolutamente niente. Solo la luce di platino della via lattea rischiarava le esigue variazioni della terra in lontananza ma di fronte ai nostri occhi non si evidenziava niente che potesse indurci a pensare di essere finalmente giunti a destinazione.
E un attimo dopo, invece, lo scenario prese un’altra piega; completamente nuova, rivoluzionaria, deviante. Alla solita piatta cornice di sottofondo si sostituì, quasi fosse stato un fulmine inaspettato, la parete scura e lucida, perpendicolare quasi al terreno, di una roccia millenaria che rapiva, voragine visiva, gli sguardi increduli. Uluru cresceva come un fungo silenzioso ogni metro di più. Uluru era la potenza dell’immobilità, presente da sempre e carico di tutti i significati che gli potevano venire attribuiti.
Potrà suonare blasfema come associazione d’idee, ma poi mica tanto: ripercorrendo con la memoria quegli attimi di stupore, solo adesso mi rendo conto di come quel sussulto interiore di piccolezza nei confronti di una natura così dominante l’avessi già sperimentato ogni qual volta, in montagna, mi fermo a lato di uno fra i tanti canaloni innevati e affogo lo sguardo fra le guglie imperiose di rocce e ghiacci. La montagna, come Uluru fu in quegli istanti, sprigiona nei confronti di chi la guarda, la scruta e la pensa, un senso di sobria perdizione e obbligata devozione. Tanto più è alta la montagna, tanto più è grande il senso d’inferiorità al suo cospetto. Quindi anche lì, lungo la strada polverosa e scura che ci stava accompagnando verso quel gigantesco monolito, ero in una condizione di riverenza elettrica, come quando un bambino si trova a due passi dal gioco che brama da tempo o, similmente, sarà invece già fra le cosce aperte del suo primo amore. Sta di fatto che con la Snoopy Mobile arrivammo fin sotto i piedi del sasso, alle 4 di mattina, eludendo i controlli degli ingenui Rangers australiani, solamente noi 3, nel silenzio più assurdo di una notte limpida. Il soffio del vento sgusciava fra le crepe e gli anfratti che si era costruito pazientemente nel corso dei secoli con l’aiuto della sua più fedele amica la pioggia. E il suo scorazzare da una caverna all’altra produceva suoni ed echi nuovi, irreali. Nascevano voci e lamenti, risa di popoli di una volta, non so; potrei scommetterci che era solo la mia fantasia mentre, in silenzio, assieme a Mario e Giovi, sedevo sul tettuccio rosso della macchina a spipacchiarmi l’ennesima sigaretta. Uluru, sotto le sfumature di una luce lunare così pallida, sembrava una navicella atterrata da chissà quale pianeta lontano per lasciare sulla terra un messaggio nuovo ma indecifrabile, opposto ai ritmi di vita supersonici che troppo bene conosciamo, no.
Poi il sonno prese il sopravvento e tornammo a dormire, rannicchiati uno sull’altro, fra le borse e le bottiglie sparse dentro la Snoopy Mobile in attesa di un’alba nuova che gustammo a qualche km da lì, più precisamente davanti alle montagne Olgas.
Lo sguardo poteva volare e rotolarsi all’infinito, perdendosi fra i vapori di un’alba frizzante ma maestosa che ben presto si sarebbe però tramutata nel solito inferno di fuoco tipico dei climi dell’entroterra.
Dopo aver goduto insieme di quello splendore, tornammo sui nostri passi verso Uluru che, nel frattempo, aveva radunato attorno a sé centinaia e centinaia di pellegrini (più o meno tali) che già si accingevano a scattare foto facendo commenti inutili sui come e sui perché o scalavano orgogliosi il dorso di quel monumento naturale per poter gustare da un’angolazione differente il panorama che da lassù (oltre 350 mt) veniva loro servito. Ma scalare quel sasso era però l’ultima cosa da fare.
In verità, Uluru non è altro che la dimora di sempre delle tribù aborigene, il corrispettivo delle caverne dei nostri antenati primitivi; è una dimora semplice ma vitale, fondamentale per garantire la sopravvivenza di un popolo che si muove in quelle aree. I suoi anfratti sono infatti una manna dal cielo contro il sole cocente e vengono utilizzati dalle tribù del luogo a seconda delle esigenze e della loro dislocazione lungo il sasso stesso come ritrovo per mangiare, zona notte, sale in cui vengono istruite le nuove leve che devono imparare a cacciare. Le gole o gli squarci sono solidi bacini che custodiscono come un tesoro l’acqua delle esigue ma potenti piogge torrenziali. Tutto attorno è un’esplosione di fitti arbusti o alberelli che rendono quasi impossibile un deambulare regolare ma che donano bacche rosse e succose: ottimo rimedio contro la fame, la sete e pile infallibili in caso di energie nuove. Tutto il territorio, inoltre, è popolato da masse di Canguri che completano così il cerchio della vita.
Ma il tetto di Uluru no.
La piattaforma rossa di Uluru è considerata ancora oggi dagli Aborigeni zona inaccessibile e che loro stessi scalano una volta nella vita, quando da bambini diventano uomini a tutti gli effetti.
Scalare Uluru, per un estraneo, diventa quindi più offensivo di una bestemmia, è un atto irrispettoso e irresponsabile, che sopravvaluta migliaia e migliaia di anni di storia per un puro e sudicio gusto personale, tanto per vedere dall’alto un mondo così desolato e solitario o, come direbbe la canzone, tanto per vedere l’effetto che fa…
Noi rispettammo la cultura aborigena, we didn’t climb Uluru (come scrivono poi sui figurini… perché al business non c’è fine…) e ci limitammo a circumnavigarlo come fanno gli abitanti del luogo perché solo in quel modo ci si può rendere veramente conto della sua potenza e del magnetismo che sprigiona sulla persona.
I branchi di visitatori che lo scalavano mi facevano sentire un verme solo per il fatto che, forse casualmente, fossero tutti bianchi europei o americani ed io facevo parte di quella stessa cultura loro, la generazione del terzo colpo di bastone sulla roccia delle dieci tavole.
Al tramonto riuscimmo a ritagliarci un angolo tutto nostro per poter godere in solitario della luce riflessa da quella specie di meteorite lunare mentre tutti già risalivano sui pullman che li avrebbero ricondotti in albergo, alla sauna, alla partita di squash, con mille foto sulla bellissima esperienza ma niente in testa.[]
La sera stessa, pure noi tornammo sui nostri passi per riallacciarci alla Stuart Highway e continuare a scivolare in fondo, direzione Adelaide, alla volta di altri due o tre posti che potevano sicuramente affascinare ulteriormente la già carica avventura.

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