Dopo Alice Spring avevamo, di certo, un’unica tappa
obbligata nella nostra traversata verso sud: Uluru.
E Uluru, agli occhi di molti/troppi che lo conoscono da turisti, dice poco
se non addirittura nulla. In fondo non è altro che un gigantesco sasso
colore arancio (al tramonto) di dimensioni abnormi e con qualche graffito
sparso qua e là a testimonianza di una civiltà ormai spazzata via dal corso
degli eventi storici che si susseguirono dagli inizi del ‘900 ai giorni
nostri. Questo è quanto, per molti…
Per arrivare ad Uluru bisogna fare un po’ di strada; quasi quattrocento km
di breccia diritta e silenziosa, che filtra nel ventre del deserto verso
ovest, fra arbusti secchi ed appuntiti, rettili di vario genere. Bisogna
avanzare cauti, soprattutto se si guida una macchina come quella che avevamo
noi, soprattutto perché non è da considerare solo la meta ma tutto ciò che
la precede, soprattutto se è notte. Ogni minimo dettaglio racconta già
qualcosa di ciò che vedrai, persino la tiepida brezza del vento di sera.
Una volta lasciata Alice si continua blandi, sempre in direzione sud, finché
non si incontra la deviazione, ad angolo retto, che porta dritti al sasso.
Non si può sbagliare, anche perché al crocevia si erge una sorta di ultimo
avamposto per fare incetta di viveri, acqua e carburante. Noi arrivammo in
quell’area di servizio verso cena, ci riempimmo lo stomaco di bistecche,
patate fritte e birra e ci rimettemmo sulla carreggiata alla volta di Uluru
(Ayers Rock è il nome bianco).
Quando uscimmo dal locale per ripartire sulla Snoopy Mobile, il giorno si
era già spogliato di quasi tutte le sue luccicanze tanto da lasciare un
flebile ricordo all’orizzonte sottoforma di una striscia fuxia-arancio
impastata e indefinita. Le ombre si erano già allungate a dismisura e
lentamente prendevano in mano le redini del gioco, salivano in cattedra a
declamare l’avvento delle tenebre, l’oscurità ambigua di mondi sconosciuti
che col passare dei minuti risorgevano da sotto terra o tornavano sotto
terra. La luna si celava timida dietro una patina spessa di nero rimandando
ai giorni futuri la luce piena del suo volto; 12 febbraio 2001. Ai lati
della carreggiata si intravedevano, a tratti, le sagome di branchi di
canguri, o gli occhi gialli di uccello, o semplicemente le braccia nervute e
le chiome crespe di arbusti spinosi. Alla velocità media di sessanta km
orari sembrava un viaggio interspaziale, con il cielo limpido e nero,
schizzato come una parete di chiazze biancastre, cielo bassissimo, strada
drittissima.
Ancora dopo due ore non si intravedeva niente, assolutamente niente. Solo la
luce di platino della via lattea rischiarava le esigue variazioni della
terra in lontananza ma di fronte ai nostri occhi non si evidenziava niente
che potesse indurci a pensare di essere finalmente giunti a destinazione.
E un attimo dopo, invece, lo scenario prese un’altra piega; completamente
nuova, rivoluzionaria, deviante. Alla solita piatta cornice di sottofondo si
sostituì, quasi fosse stato un fulmine inaspettato, la parete scura e
lucida, perpendicolare quasi al terreno, di una roccia millenaria che
rapiva, voragine visiva, gli sguardi increduli. Uluru cresceva come un fungo
silenzioso ogni metro di più. Uluru era la potenza dell’immobilità, presente
da sempre e carico di tutti i significati che gli potevano venire
attribuiti.
Potrà suonare blasfema come associazione d’idee, ma poi mica tanto:
ripercorrendo con la memoria quegli attimi di stupore, solo adesso mi rendo
conto di come quel sussulto interiore di piccolezza nei confronti di una
natura così dominante l’avessi già sperimentato ogni qual volta, in
montagna, mi fermo a lato di uno fra i tanti canaloni innevati e affogo lo
sguardo fra le guglie imperiose di rocce e ghiacci. La montagna, come Uluru
fu in quegli istanti, sprigiona nei confronti di chi la guarda, la scruta e
la pensa, un senso di sobria perdizione e obbligata devozione. Tanto più è
alta la montagna, tanto più è grande il senso d’inferiorità al suo cospetto.
Quindi anche lì, lungo la strada polverosa e scura che ci stava
accompagnando verso quel gigantesco monolito, ero in una condizione di
riverenza elettrica, come quando un bambino si trova a due passi dal gioco
che brama da tempo o, similmente, sarà invece già fra le cosce aperte del
suo primo amore. Sta di fatto che con la Snoopy Mobile arrivammo fin sotto i
piedi del sasso, alle 4 di mattina, eludendo i controlli degli ingenui
Rangers australiani, solamente noi 3, nel silenzio più assurdo di una notte
limpida. Il soffio del vento sgusciava fra le crepe e gli anfratti che si
era costruito pazientemente nel corso dei secoli con l’aiuto della sua più
fedele amica la pioggia. E il suo scorazzare da una caverna all’altra
produceva suoni ed echi nuovi, irreali. Nascevano voci e lamenti, risa di
popoli di una volta, non so; potrei scommetterci che era solo la mia
fantasia mentre, in silenzio, assieme a Mario e Giovi, sedevo sul tettuccio
rosso della macchina a spipacchiarmi l’ennesima sigaretta. Uluru, sotto le
sfumature di una luce lunare così pallida, sembrava una navicella atterrata
da chissà quale pianeta lontano per lasciare sulla terra un messaggio nuovo
ma indecifrabile, opposto ai ritmi di vita supersonici che troppo bene
conosciamo, no.
Poi il sonno prese il sopravvento e tornammo a dormire, rannicchiati uno
sull’altro, fra le borse e le bottiglie sparse dentro la Snoopy Mobile in
attesa di un’alba nuova che gustammo a qualche km da lì, più precisamente
davanti alle montagne Olgas.
Lo sguardo poteva volare e rotolarsi all’infinito, perdendosi fra i vapori
di un’alba frizzante ma maestosa che ben presto si sarebbe però tramutata
nel solito inferno di fuoco tipico dei climi dell’entroterra.
Dopo aver goduto insieme di quello splendore, tornammo sui nostri passi
verso Uluru che, nel frattempo, aveva radunato attorno a sé centinaia e
centinaia di pellegrini (più o meno tali) che già si accingevano a scattare
foto facendo commenti inutili sui come e sui perché o scalavano orgogliosi
il dorso di quel monumento naturale per poter gustare da un’angolazione
differente il panorama che da lassù (oltre 350 mt) veniva loro servito. Ma
scalare quel sasso era però l’ultima cosa da fare.
In verità, Uluru non è altro che la dimora di sempre delle tribù aborigene,
il corrispettivo delle caverne dei nostri antenati primitivi; è una dimora
semplice ma vitale, fondamentale per garantire la sopravvivenza di un popolo
che si muove in quelle aree. I suoi anfratti sono infatti una manna dal
cielo contro il sole cocente e vengono utilizzati dalle tribù del luogo a
seconda delle esigenze e della loro dislocazione lungo il sasso stesso come
ritrovo per mangiare, zona notte, sale in cui vengono istruite le nuove leve
che devono imparare a cacciare. Le gole o gli squarci sono solidi bacini che
custodiscono come un tesoro l’acqua delle esigue ma potenti piogge
torrenziali. Tutto attorno è un’esplosione di fitti arbusti o alberelli che
rendono quasi impossibile un deambulare regolare ma che donano bacche rosse
e succose: ottimo rimedio contro la fame, la sete e pile infallibili in caso
di energie nuove. Tutto il territorio, inoltre, è popolato da masse di
Canguri che completano così il cerchio della vita.
Ma il tetto di Uluru no.
La piattaforma rossa di Uluru è considerata ancora oggi dagli Aborigeni zona
inaccessibile e che loro stessi scalano una volta nella vita, quando da
bambini diventano uomini a tutti gli effetti.
Scalare Uluru, per un estraneo, diventa quindi più offensivo di una
bestemmia, è un atto irrispettoso e irresponsabile, che sopravvaluta
migliaia e migliaia di anni di storia per un puro e sudicio gusto personale,
tanto per vedere dall’alto un mondo così desolato e solitario o, come
direbbe la canzone, tanto per vedere l’effetto che fa…
Noi rispettammo la cultura aborigena, we didn’t climb Uluru (come scrivono
poi sui figurini… perché al business non c’è fine…) e ci limitammo a
circumnavigarlo come fanno gli abitanti del luogo perché solo in quel modo
ci si può rendere veramente conto della sua potenza e del magnetismo che
sprigiona sulla persona.
I branchi di visitatori che lo scalavano mi facevano sentire un verme solo
per il fatto che, forse casualmente, fossero tutti bianchi europei o
americani ed io facevo parte di quella stessa cultura loro, la generazione
del terzo colpo di bastone sulla roccia delle dieci tavole.
Al tramonto riuscimmo a ritagliarci un angolo tutto nostro per poter godere
in solitario della luce riflessa da quella specie di meteorite lunare mentre
tutti già risalivano sui pullman che li avrebbero ricondotti in albergo,
alla sauna, alla partita di squash, con mille foto sulla bellissima
esperienza ma niente in testa.[]
La sera stessa, pure noi tornammo sui nostri passi per riallacciarci alla
Stuart Highway e continuare a scivolare in fondo, direzione Adelaide, alla
volta di altri due o tre posti che potevano sicuramente affascinare
ulteriormente la già carica avventura. |