Crisi. Adesso. Cos’era quella partenza? Dove si andava?
Fino a quel momento, anche se molto genericamente e inventando le tappe da
un giorno all’altro, sapevamo che, comunque, saremmo arrivati su, fino a
Cairns almeno. La meta l’avevamo sempre intravista, ce l’eravamo sempre
immaginata. Ma ora no. Ora era tutto diverso, incredibilmente bianco e
grande. Ed è sconcertante come, ancora oggi, non riesca a trovare un punto
da cui partire per descrivere il nostro ingresso in quella nuova dimensione.
L’unico flash che mi ronza come una mosca nei ricordi è l’agenda aperta e io
che ci scrivo una serie di appunti e promemoria per la manutenzione della
macchina e altre cose.
Si trattava di switchare il cervello su una frequenza nuova, molto più
libera e quindi anche più pericolosa. Ogni chilometro macinato ci parlava di
un mondo che cambiava, respiravamo altri odori mentre le piante e gli
animali, ora dopo ora, cambiavano forma fino a scomparire del tutto e
lasciare spazio ad altre forme vegetali. E la terra cominciava a diventare
sempre più rossa e arida.
Una volta sgusciati fuori dagli acquazzoni di Cape Tribulation e imboccata
la via che puntava diritto verso il centro, ci fermammo alla prima stazione
di servizio prima di affrontare quel lungo tragitto. Un cartello avvertiva
del pericolo rappresentato dai Road Trains; Tir giganteschi che trainavano
anche fino a quattro o cinque rimorchi raggiungendo, a volte, lunghezze di
cinquanta metri. Il trasporto di generi alimentari o merci varie avviene
tuttora così e solo in parte per via ferroviaria. Dopotutto, una volta fuori
dalle maggiori città, le strade sono costantemente rettilinee, quasi
nauseanti e la soluzione del Road Train risulta essere la più veloce,
affidabile e facile nel mondo del commercio.
E in effetti il cartello non aveva tutti i torti perché questi serpenti
d’acciaio erano dei proiettili inarrestabili e per sorpassarli, a volte, ci
si impiegava più di un minuto.
Ma noi non ne avevamo ancora incontrati e non potevamo renderci conto fino
in fondo della verità scritta su quel cartello. Al distributore riempimmo la
macchina di frutta, un po’ d’affettati (Giovi non resisteva senza
mortadella, anche a quaranta gradi!!!) e una buona scorta di acqua e
ghiaccio… e una tanica di benza per essere sicuri di raggiungere anche il
prossimo distributore che si trovava, se non ricordo male, a qualcosa come
cinquecento km da lì.
Il motore ringhiava imperterrito contro un’onda continua e bollente e veniva
risucchiato assieme all’auto tutta e noi stessi fra la finta leggerezza del
cielo azzurro e la carica rossastra di una terra indemoniata e viva. Ogni
tanto i copertoni sussultavano su griglie di traversine ferroviarie messe
come scolo per le piogge torrenziali che costantemente allagavano quelle
strade strette e solitarie; e non servivano assolutamente a niente, se non a
deteriorare ulteriormente lo stato (già pessimo) delle gomme della Snoopy
Mobile. Ogni metro percorso era una vittoria per quella macchina e per noi
anche che iniziavamo a realizzare in che cazzo di avventura fossimo
capitati, mentre all’orizzonte compariva il primo Road Train.
Innanzitutto dipendeva da che direzione arrivassero quei mostri motorizzati,
ovvero, se ce li avevamo dietro al culo li vedevamo avvicinarsi lentamente,
draghi senza espressione che divoravano l’orizzonte km dopo km fino a che
diventavano troppo grandi per essere contenuti nella cornice opaca dello
specchietto, finché, all’improvviso, ci scavalcavano con la loro gigantesca
lentezza e le ottanta, cento ruote nere ed immense a qualche metro dalla
fiancata dell’auto. Se invece erano di fronte a noi, quindi nella direzione
opposta, be’, era un bel casino.
Quello schizzo luccicante che sbucava dal punto di fuga della strada
rettilinea si ingigantiva a dismisura mentre ai suoi lati alzava una polvere
rossastra che preannunciava visivamente la velocità e la potenza di quella
macchina lunghissima. La strada era stretta e fintamente diritta; le vacche
si spalmavano sull’erba o all’ombra di qualche alberello ai margini della
carreggiata e noi, ad ogni metro, ci accostavamo più che si poteva al lato
della strada stessa, con due ruote sull’asfalto e le altre due sulla terra
arida e rovente. Fino al momento dell’incontro/scontro: uno spostamento
d’aria inverosimile e il clacson polifonico di quel bruco d’acciaio che
salutava il suo passaggio mentre si allontanava e si rimpiccioliva dallo
specchietto impolverato.
E poi nuovamente noi, il silenzio del bush e l’orizzonte davanti agli occhi.
Dal momento in cui lasciammo la costa orientale per addentrarci nel cuore di
quella magica terra, non ci fu più una vera e propria occasione per rivivere
una grande città, o perlomeno una parvenza di città. A settecento km da
Cairns attraversammo Normanton come fosse una boa in mezzo al mare per
virare verso sud cosicché, dopo aver bruciato altri litri e litri di
carburante, il serpente di catrame ci condusse a Mount Isa: una realtà
dispersa nella parte est del Northern Territory conosciuta per la presenza
di immensi bacini sotterranei di carbone, zolfo e altre risorse minerarie.
Una città triste, morta, che esisteva solo ed esclusivamente in funzione
delle cave di carbone tanto da sembrare abitata esclusivamente da ruspe,
trattori e camion. Mount Isa fu anche l’ultima possibilità che avemmo di
dormire in un letto. Visto che, infatti, entrammo in città verso sera,
decidemmo di ripartire il giorno seguente anche per dare un po’ di respiro
alla nostra mitica auto… e a noi stessi certamente. Ci fermammo in un
ostello non troppo brutto, una serie di casette a schiera sviluppate su due
ali che convergevano verso l’androne della reception. Lavandino in camera e
bagno in comune. Esagerando (perché no?), Mount Isa poteva rappresentare la
nostra Costantinopoli, la porta di passaggio verso una nuova realtà che ci
avrebbe consegnato fra le pareti sabbiose e asciutte dell’entroterra, sotto
lo sguardo attento di migliaia di cacatua e scure aquile maestose. E non
molto lontani furono i giorni in cui avremmo iniziato a dormire in macchina,
per il semplice fatto che, da quel momento in poi, eravamo praticamente
abbandonati a noi stessi fino alla prossima meta certa di quell’infinito
guidare: Tennant Creek.[]
Era stupefacente il modo in cui la Snoopy mobile avanzasse imperterrita
senza il minimo singhiozzo su quella lingua nera e bollente; e noi potevamo
solo immaginare la temperatura che si sviluppava fra i copertoni e l’asfalto
perché bastava sporgersi leggermente dal finestrino sudicio per ricevere
vere e proprie palate di afa sul volto che impedivano, a tratti, persino una
respirazione regolare. Tutto ciò che si trovava all’interno dell’auto e
tutto ciò che era al suo esterno cambiava forma, subiva inesorabilmente
l’azione continua di quella calura improponibile. Così l’acqua all’interno
delle bottiglie evaporava, il ghiaccio si scioglieva persino se
ermeticamente chiuso nel box, i sedili, il volante e un po’ tutta la
tappezzeria dell’abitacolo si impregnavano del nostro lurido sudore
[] e Snoopy…
Snoopy incredibilmente, con il suo musetto ormai rosso di polvere e sabbia
persisteva nella sua statica sciata sul bordo del cofano con le racchette
ben salde fra le zampe e le orecchie in posizione perfettamente
aerodinamica. L’esperienza era durissima e metteva, sempre più spesso, a
dura prova i nervi e la pazienza di ognuno. Erano trascorsi oramai quasi due
mesi dalla partenza da Sydney e avevamo avuto modo di assorbire e assimilare
le caratteristiche, i pregi e i difetti di ciascuno. Ognuno era entrato fin
troppo profondamente forse nella vita dell’altro e viceversa tanto che,
sempre più spesso, il silenzio imperava nella macchina: non era rimasto
molto da dirci. Avanzavamo a suon di stronzate, ridevamo o litigavamo per
una parola detta in un modo anziché in un altro, mangiavamo assieme,
dormivamo assieme, ci lavavamo assieme e, se avessimo trovato una donna,
l’avremmo scopata assieme. Mario rimaneva sempre il fulcro primo da cui si
sviluppavano tutte le incomprensioni o le magie, era l’elemento
destabilizzante e imprevedibile del trio, colui che sapeva mettere brio o
riversare quintali di regole da rispettare e progetti da portare a termine.
Giovi, nella sua attenta timidezza era quello che interagiva più volentieri
con le fughe mentali e grammaticali di Mario entrando così in vortici
ironici e sarcastici che potevano durare anche ore intere. Io mi ricordo
seduto sul sedile anteriore al fianco di Mario mentre fuori si sviluppavano
situazioni e paesaggi in continuazione. Avevo già la testa da un’altra
parte, spesso mi capita di volare via, lontano, ma quella volta fu come
un’epifania. Mi resi conto che, fondamentalmente, ero stato sempre lontano
con i pensieri da ogni situazione reale che si proponeva; già dalla partenza
di quel lontano 16 dicembre. La mia testa era sintonizzata sempre lì, nel
mezzo, intorno o sopra non importa ma sempre e comunque lì, da dove
aspettava il corpo: Uluru. Alla fine dei conti era quello il motivo che mi
aveva spinto ad andare laggiù, tentando quest’avventura fantastica ma
interrogativa. Io ero partito per riuscire a vedere un sasso, ecco la
verità; quel magnifico e mistico monolito che si ergeva dal centro del nulla
australiano come una Mecca della notte dei tempi e più sprofondavamo nel
caldo alzando nuvole di polvere rossa, più cresceva la sete di trovarmelo di
fronte e riprendermi la mia mente.
E a un certo punto, poi, bucammo. La ruota posteriore sinistra esplose
improvvisamente in un boato mattutino nel silenzio di quegli ambienti,
spappolandosi in mille filamenti mentre rallentavamo sul ciglio della
strada. Nella corsa verso Tennant Creek avevamo incrociato due o tre auto
ferme con il conducente intento a ripararne qualcuna ma quella volta toccò a
noi. Fu proprio in quel momento che, ingenuamente forse, realizzammo con
stupore che la Snoopy Mobile non volava affatto, anzi. La mitica, fino a
quel giorno, aveva operato un vero e proprio miracolo traghettandoci in ogni
dove e sotto qualsiasi condizione climatica, di giorno come di notte,
sull’asfalto o su sentieri sterrati con la manutenzione minima
indispensabile richiesta mentre si attraversavano foreste, metropoli,
campagne e vallate, fiumi e, come in quel caso, steppe desertiche. Così
quella gomma esplosa suonò come un segnale di avvertimento affinché
prestassimo più attenzione a quel mezzo. Proprio grazie a quell’evento
potemmo constatare come anche gli altri tre copertoni fossero in condizioni
pessime e prossimi alla disintegrazione. Il problema era che, ora, avevamo
solamente una ruota di scorta e per raggiungere Tennant Creek mancavano
ancora trecento km. L’altra ruota posteriore, in effetti, era in condizioni
realmente disastrose: il contatto con l’asfalto incandescente (a volte
scivolavamo su pozzanghere di catrame) aveva sbucciato i vari strati del
copertone come fosse un’arancia, tanto che si potevano intravedere ad occhio
nudo le maglie metalliche dello scheletro del pneumatico stessa.
Praticamente dovevamo prepararci ad un’altra foratura sapendo in anticipo
che non avremmo avuto modo di ripararla con nessun’altra ruota di scorta… e
in quel tratto di strada, senza cellulare, non si vedeva anima viva
dall’intera giornata.
Ci rimettemmo in viaggio alla volta della prossima meta con queste
sensazioni nello stomaco: ogni chilometro lasciato alle spalle era una
vittoria, ogni chilometro davanti a noi una speranza, ogni chilometro sotto
la carrozzeria della macchina una scommessa. Avanzavamo a passo di tartaruga
per non surriscaldare le gomme già fin troppo sfruttate mentre con gli occhi
fissavamo il sole nella speranza che svanisse dietro l’orizzonte il più
velocemente possibile.
Ma poi, finalmente, ecco il cartello di benvenuto a Tennant Creek. Avevamo
vinto un’altra scommessa, no, la Snoopy Mobile l’aveva vinta e mentre
entravamo in città intravedendo le prime abitazioni, anche l’altra ruota
posteriore cominciò a spappolarsi, a qualche centinaio di metri da
un’officina e un gommista…
Una volta riparate le ‘suole’ ai nostri ‘piedi meccanici’ passammo la notte
non ricordo bene dove ne come. Ad ogni modo ripartimmo il giorno seguente,
dopo un doveroso check out alla nostra astronave rossa. |