CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

9. ROAD TRAINS

Crisi. Adesso. Cos’era quella partenza? Dove si andava?
Fino a quel momento, anche se molto genericamente e inventando le tappe da un giorno all’altro, sapevamo che, comunque, saremmo arrivati su, fino a Cairns almeno. La meta l’avevamo sempre intravista, ce l’eravamo sempre immaginata. Ma ora no. Ora era tutto diverso, incredibilmente bianco e grande. Ed è sconcertante come, ancora oggi, non riesca a trovare un punto da cui partire per descrivere il nostro ingresso in quella nuova dimensione.
L’unico flash che mi ronza come una mosca nei ricordi è l’agenda aperta e io che ci scrivo una serie di appunti e promemoria per la manutenzione della macchina e altre cose.
Si trattava di switchare il cervello su una frequenza nuova, molto più libera e quindi anche più pericolosa. Ogni chilometro macinato ci parlava di un mondo che cambiava, respiravamo altri odori mentre le piante e gli animali, ora dopo ora, cambiavano forma fino a scomparire del tutto e lasciare spazio ad altre forme vegetali. E la terra cominciava a diventare sempre più rossa e arida.
Una volta sgusciati fuori dagli acquazzoni di Cape Tribulation e imboccata la via che puntava diritto verso il centro, ci fermammo alla prima stazione di servizio prima di affrontare quel lungo tragitto. Un cartello avvertiva del pericolo rappresentato dai Road Trains; Tir giganteschi che trainavano anche fino a quattro o cinque rimorchi raggiungendo, a volte, lunghezze di cinquanta metri. Il trasporto di generi alimentari o merci varie avviene tuttora così e solo in parte per via ferroviaria. Dopotutto, una volta fuori dalle maggiori città, le strade sono costantemente rettilinee, quasi nauseanti e la soluzione del Road Train risulta essere la più veloce, affidabile e facile nel mondo del commercio.
E in effetti il cartello non aveva tutti i torti perché questi serpenti d’acciaio erano dei proiettili inarrestabili e per sorpassarli, a volte, ci si impiegava più di un minuto.
Ma noi non ne avevamo ancora incontrati e non potevamo renderci conto fino in fondo della verità scritta su quel cartello. Al distributore riempimmo la macchina di frutta, un po’ d’affettati (Giovi non resisteva senza mortadella, anche a quaranta gradi!!!) e una buona scorta di acqua e ghiaccio… e una tanica di benza per essere sicuri di raggiungere anche il prossimo distributore che si trovava, se non ricordo male, a qualcosa come cinquecento km da lì.
Il motore ringhiava imperterrito contro un’onda continua e bollente e veniva risucchiato assieme all’auto tutta e noi stessi fra la finta leggerezza del cielo azzurro e la carica rossastra di una terra indemoniata e viva. Ogni tanto i copertoni sussultavano su griglie di traversine ferroviarie messe come scolo per le piogge torrenziali che costantemente allagavano quelle strade strette e solitarie; e non servivano assolutamente a niente, se non a deteriorare ulteriormente lo stato (già pessimo) delle gomme della Snoopy Mobile. Ogni metro percorso era una vittoria per quella macchina e per noi anche che iniziavamo a realizzare in che cazzo di avventura fossimo capitati, mentre all’orizzonte compariva il primo Road Train.
Innanzitutto dipendeva da che direzione arrivassero quei mostri motorizzati, ovvero, se ce li avevamo dietro al culo li vedevamo avvicinarsi lentamente, draghi senza espressione che divoravano l’orizzonte km dopo km fino a che diventavano troppo grandi per essere contenuti nella cornice opaca dello specchietto, finché, all’improvviso, ci scavalcavano con la loro gigantesca lentezza e le ottanta, cento ruote nere ed immense a qualche metro dalla fiancata dell’auto. Se invece erano di fronte a noi, quindi nella direzione opposta, be’, era un bel casino.
Quello schizzo luccicante che sbucava dal punto di fuga della strada rettilinea si ingigantiva a dismisura mentre ai suoi lati alzava una polvere rossastra che preannunciava visivamente la velocità e la potenza di quella macchina lunghissima. La strada era stretta e fintamente diritta; le vacche si spalmavano sull’erba o all’ombra di qualche alberello ai margini della carreggiata e noi, ad ogni metro, ci accostavamo più che si poteva al lato della strada stessa, con due ruote sull’asfalto e le altre due sulla terra arida e rovente. Fino al momento dell’incontro/scontro: uno spostamento d’aria inverosimile e il clacson polifonico di quel bruco d’acciaio che salutava il suo passaggio mentre si allontanava e si rimpiccioliva dallo specchietto impolverato.
E poi nuovamente noi, il silenzio del bush e l’orizzonte davanti agli occhi.
Dal momento in cui lasciammo la costa orientale per addentrarci nel cuore di quella magica terra, non ci fu più una vera e propria occasione per rivivere una grande città, o perlomeno una parvenza di città. A settecento km da Cairns attraversammo Normanton come fosse una boa in mezzo al mare per virare verso sud cosicché, dopo aver bruciato altri litri e litri di carburante, il serpente di catrame ci condusse a Mount Isa: una realtà dispersa nella parte est del Northern Territory conosciuta per la presenza di immensi bacini sotterranei di carbone, zolfo e altre risorse minerarie. Una città triste, morta, che esisteva solo ed esclusivamente in funzione delle cave di carbone tanto da sembrare abitata esclusivamente da ruspe, trattori e camion. Mount Isa fu anche l’ultima possibilità che avemmo di dormire in un letto. Visto che, infatti, entrammo in città verso sera, decidemmo di ripartire il giorno seguente anche per dare un po’ di respiro alla nostra mitica auto… e a noi stessi certamente. Ci fermammo in un ostello non troppo brutto, una serie di casette a schiera sviluppate su due ali che convergevano verso l’androne della reception. Lavandino in camera e bagno in comune. Esagerando (perché no?), Mount Isa poteva rappresentare la nostra Costantinopoli, la porta di passaggio verso una nuova realtà che ci avrebbe consegnato fra le pareti sabbiose e asciutte dell’entroterra, sotto lo sguardo attento di migliaia di cacatua e scure aquile maestose. E non molto lontani furono i giorni in cui avremmo iniziato a dormire in macchina, per il semplice fatto che, da quel momento in poi, eravamo praticamente abbandonati a noi stessi fino alla prossima meta certa di quell’infinito guidare: Tennant Creek.[]
Era stupefacente il modo in cui la Snoopy mobile avanzasse imperterrita senza il minimo singhiozzo su quella lingua nera e bollente; e noi potevamo solo immaginare la temperatura che si sviluppava fra i copertoni e l’asfalto perché bastava sporgersi leggermente dal finestrino sudicio per ricevere vere e proprie palate di afa sul volto che impedivano, a tratti, persino una respirazione regolare. Tutto ciò che si trovava all’interno dell’auto e tutto ciò che era al suo esterno cambiava forma, subiva inesorabilmente l’azione continua di quella calura improponibile. Così l’acqua all’interno delle bottiglie evaporava, il ghiaccio si scioglieva persino se ermeticamente chiuso nel box, i sedili, il volante e un po’ tutta la tappezzeria dell’abitacolo si impregnavano del nostro lurido sudore [] e Snoopy… Snoopy incredibilmente, con il suo musetto ormai rosso di polvere e sabbia persisteva nella sua statica sciata sul bordo del cofano con le racchette ben salde fra le zampe e le orecchie in posizione perfettamente aerodinamica. L’esperienza era durissima e metteva, sempre più spesso, a dura prova i nervi e la pazienza di ognuno. Erano trascorsi oramai quasi due mesi dalla partenza da Sydney e avevamo avuto modo di assorbire e assimilare le caratteristiche, i pregi e i difetti di ciascuno. Ognuno era entrato fin troppo profondamente forse nella vita dell’altro e viceversa tanto che, sempre più spesso, il silenzio imperava nella macchina: non era rimasto molto da dirci. Avanzavamo a suon di stronzate, ridevamo o litigavamo per una parola detta in un modo anziché in un altro, mangiavamo assieme, dormivamo assieme, ci lavavamo assieme e, se avessimo trovato una donna, l’avremmo scopata assieme. Mario rimaneva sempre il fulcro primo da cui si sviluppavano tutte le incomprensioni o le magie, era l’elemento destabilizzante e imprevedibile del trio, colui che sapeva mettere brio o riversare quintali di regole da rispettare e progetti da portare a termine. Giovi, nella sua attenta timidezza era quello che interagiva più volentieri con le fughe mentali e grammaticali di Mario entrando così in vortici ironici e sarcastici che potevano durare anche ore intere. Io mi ricordo seduto sul sedile anteriore al fianco di Mario mentre fuori si sviluppavano situazioni e paesaggi in continuazione. Avevo già la testa da un’altra parte, spesso mi capita di volare via, lontano, ma quella volta fu come un’epifania. Mi resi conto che, fondamentalmente, ero stato sempre lontano con i pensieri da ogni situazione reale che si proponeva; già dalla partenza di quel lontano 16 dicembre. La mia testa era sintonizzata sempre lì, nel mezzo, intorno o sopra non importa ma sempre e comunque lì, da dove aspettava il corpo: Uluru. Alla fine dei conti era quello il motivo che mi aveva spinto ad andare laggiù, tentando quest’avventura fantastica ma interrogativa. Io ero partito per riuscire a vedere un sasso, ecco la verità; quel magnifico e mistico monolito che si ergeva dal centro del nulla australiano come una Mecca della notte dei tempi e più sprofondavamo nel caldo alzando nuvole di polvere rossa, più cresceva la sete di trovarmelo di fronte e riprendermi la mia mente.
E a un certo punto, poi, bucammo. La ruota posteriore sinistra esplose improvvisamente in un boato mattutino nel silenzio di quegli ambienti, spappolandosi in mille filamenti mentre rallentavamo sul ciglio della strada. Nella corsa verso Tennant Creek avevamo incrociato due o tre auto ferme con il conducente intento a ripararne qualcuna ma quella volta toccò a noi. Fu proprio in quel momento che, ingenuamente forse, realizzammo con stupore che la Snoopy Mobile non volava affatto, anzi. La mitica, fino a quel giorno, aveva operato un vero e proprio miracolo traghettandoci in ogni dove e sotto qualsiasi condizione climatica, di giorno come di notte, sull’asfalto o su sentieri sterrati con la manutenzione minima indispensabile richiesta mentre si attraversavano foreste, metropoli, campagne e vallate, fiumi e, come in quel caso, steppe desertiche. Così quella gomma esplosa suonò come un segnale di avvertimento affinché prestassimo più attenzione a quel mezzo. Proprio grazie a quell’evento potemmo constatare come anche gli altri tre copertoni fossero in condizioni pessime e prossimi alla disintegrazione. Il problema era che, ora, avevamo solamente una ruota di scorta e per raggiungere Tennant Creek mancavano ancora trecento km. L’altra ruota posteriore, in effetti, era in condizioni realmente disastrose: il contatto con l’asfalto incandescente (a volte scivolavamo su pozzanghere di catrame) aveva sbucciato i vari strati del copertone come fosse un’arancia, tanto che si potevano intravedere ad occhio nudo le maglie metalliche dello scheletro del pneumatico stessa. Praticamente dovevamo prepararci ad un’altra foratura sapendo in anticipo che non avremmo avuto modo di ripararla con nessun’altra ruota di scorta… e in quel tratto di strada, senza cellulare, non si vedeva anima viva dall’intera giornata.
Ci rimettemmo in viaggio alla volta della prossima meta con queste sensazioni nello stomaco: ogni chilometro lasciato alle spalle era una vittoria, ogni chilometro davanti a noi una speranza, ogni chilometro sotto la carrozzeria della macchina una scommessa. Avanzavamo a passo di tartaruga per non surriscaldare le gomme già fin troppo sfruttate mentre con gli occhi fissavamo il sole nella speranza che svanisse dietro l’orizzonte il più velocemente possibile.
Ma poi, finalmente, ecco il cartello di benvenuto a Tennant Creek. Avevamo vinto un’altra scommessa, no, la Snoopy Mobile l’aveva vinta e mentre entravamo in città intravedendo le prime abitazioni, anche l’altra ruota posteriore cominciò a spappolarsi, a qualche centinaio di metri da un’officina e un gommista…
Una volta riparate le ‘suole’ ai nostri ‘piedi meccanici’ passammo la notte non ricordo bene dove ne come. Ad ogni modo ripartimmo il giorno seguente, dopo un doveroso check out alla nostra astronave rossa.

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