Le rane, dalle parti di Cape Tribulation e Cook Town,
sono molte e molto rumorose. Si fanno sentire spesso e sempre più
insistentemente la sera, quando cala il sole, e più le tenebre avanzano più
il gracchiare la fa da padrone su qualsiasi altro suono notturno. Quelli
sono posti ancora vergini, ogni costruzione umana non resiste che poco tempo
prima di essere nuovamente aggredita dalla natura. Le piante rampicanti
tornano ad abbracciare le mura delle abitazioni, le strade si sgretolano
sotto i cubi d’acqua che il cielo scarica ogni minuto, e tutto attorno è un
bisbigliare di insetti, anfibi o altri animali che non abbandonano il loro
territorio e non si fanno intimorire da niente e nessuno.[]
Eravamo proprio a metà strada fra Cairns e Cape Tribulation quando decidemmo
di trascorrere una nottata in tenda ai margini del Daintree River:
un’anaconda d’acqua dolce che si divincolava lenta e torbida fra le pianure
del North Queensland infestato di pesci di ogni sorta ma soprattutto di
coccodrilli.
Raggiungemmo un’insenatura in cui la corrente del fiume rallentava
considerevolmente. Proprio da quel punto era stata ricavata una zona di
scalo per una o due chiatte che traghettavano cose e persone da una sponda
all’altra visto che, a causa delle innumerevoli e sempre diverse
inondazioni, era praticamente impossibile poter costruire un ponte che
unisse le due facce del fiume. A dire il vero un ponte c’era, ma era a
chilometri di distanza da lì e per gli abitanti di quel piccolo centro la
cosa non era certo conveniente.
Forse gli abitanti, da quelle parti, erano dieci, venti per esagerare. Lo
spiazzo che dava accesso a quell’insenatura era ben visibile anche perché fu
forse l’unica deviazione che incontrammo durante il tragitto. Stavamo
costeggiando il fiume e procedevamo in direzione nord quando notammo uno
slargo proprio sulla destra; e lo sguardo incontrava subito (e solamente)
due costruzioni: un ristorante-pub-alimentari (e magari anche chiesa) in
legno e vetrate fronteggiato da un altro che non aveva niente a che fare con
il primo. Sembrava essere una sorta di rimessa, o qualcosa del genere,
verniciata di bianco (da quel che ricordo) e altrettanto grande quanto il
primo edificio. Entrambi erano chiusi, e nessuno, sembrava, sarebbe mai
venuto ad aprirli. Ed infatti nessuno venne. Quella stessa notte dormimmo
lì, con la macchina parcheggiata fra i due caseggiati e la tenda a ridosso
del fiume. L’edificio più vecchio, quello con le mura dipinte di bianco, era
una sorta di Backpacker, abbandonato, o comunque poco frequentato. Ad ogni
modo i bagni non avevano porte e sia l’elettricità che l’impianto idraulico
erano funzionanti. Prima che calasse il giorno ci adoperammo affinché la
tenda fosse posizionata nel miglior modo possibile, al riparo sotto tre
alberi dalle potenti piogge tropicali grazie ad un telo che, fortunatamente,
avevamo ereditato con l’acquisto dell’auto. E quella notte di acqua ne cadde
così tanta che fu quasi impossibile addormentarsi. Il risveglio (per me)
avvenne all’alba. Eravamo sempre troppo stretti (e umidi) li dentro e non
appena aprivo gli occhi sentivo il bisogno di fuggire fuori, lasciare lo
spazio che occupavo per fare dormire almeno gli altri e avere così la
possibilità di farmi qualche camminata da solo. E siccome, spesso, capitava
che mi svegliassi sempre troppo presto, le camminate erano sempre troppo
corte rispetto al tempo che dovevo poi attendere affinché anche gli altri
due animali si fossero svegliati. Be’, quella camminata in particolare,
però, anche se breve, fu certamente rilassante. Mi alzai presto, abbastanza
presto, e forse saranno state le sei e trenta, sette del mattino quando mi
ritrovai scalzo e in mutande fuori dalla tenda; l’aria era pungente.
[] Aveva
piovuto tutta la notte ma il cielo era ancora coperto, a chiazze, da pesanti
nuvole grigie che sbucavano da dietro le colline per riflettersi sullo
specchio del fiume. Un cartello avvertiva chiunque si trovasse da quelle
parti di fare estrema attenzione al fiume, alla possibilità di alluvioni, al
suo fondale melmoso e, soprattutto, al persistente pericolo rappresentato
dai coccodrilli che abitavano quelle acque. [] Camminare a piedi nudi su uno
strato d’erba soffice è sempre un godimento unico che aiuta a risvegliarsi
dal torpore del sonno, inoltre quella situazione era degna di una qualsiasi
scena di qualche film immaginario. Ad ogni passo si potevano udire suoni e
movimenti repentini di tutte le creature più o meno invisibili che
popolavano quella valle mentre, sullo sfondo, spuntava il telo azzurro e la
macchia viola della tenda seminascosta fra gli alberi. E finalmente anche le
teste di Mario e Giovanni. Gechi, Rane ed esseri simili si materializzavano
in ogni dove; di notte avevano preso possesso delle pareti fradice della
tenda, o si erano appiccicati sui vetri e la carrozzeria della Snoopy
Mobile. Anche contro le mattonelle bianche ed ammuffite dei bagni della
casa. Verso le nove mangiammo qualcosa all’interno del ristorante (che nel
frattempo aveva aperto) e ripartimmo.
Adoravo quei posti anche se (o proprio perché) erano uno scivolare continuo
dentro me stesso, come l’acqua i miei pensieri si infiltravano ovunque
scavando cunicoli minuscoli ma profondi nei ricordi e non so dove arrivavo
con la mente. Mi sentivo come una foresta di mangrovie, migliaia di radici
che si divincolano sulla superficie del terreno, vermi di legno in attesa di
un diluvio che presto arriverà. E il diluvio, in effetti, arrivò presto,
anzi, sempre, ininterrotto. Il nostro avanzare ci condusse, forse, ad uno
fra gli ultimi ostelli di quelle zone così impervie; una sorta di cupola
ricavata fra le fronde maestose della giungla, una cupola magica di legno e
bamboo come riparo dalle piogge e tutto attorno verde ed erbetta che
sembrava gomma piuma. Le poche persone che campeggiavano in quella sorta di
avamposto erano tutte preparate per quella stagione, conoscevano bene cosa
volesse dire vivere in un area simile durante la stagione delle piogge,
forse vivevano da quelle parti, o forse avevano semplicemente un po’ più
soldi di noi da poter spendere nell’affitto di un appartamento che l’Ostello
stesso offriva come soluzione alternativa (e, vista la stagione, obbligata)
alla sistemazione ‘fai da te’ in tenda.
Se stessi descrivendo una gara di nuoto potrei dire che, a questo punto
della storia, eravamo giunti all’altra sponda della piscina, in piena
virata, pronti ad affrontare la prossima vasca.
Lasciavamo le foreste, le piogge tropicali, la vegetazione regina, il
gracchiare infinito delle rane e anche il cellulare (rubato) per sprofondare
nel clima arido e guerriero dell’entroterra, il bush. |