Fra Cairns e Cape Tribulation non c’è niente, tranne la
certezza di essere sempre sudati.
Arrivammo verso sera, ora di cena, ma non avevamo che pochi dollari ed
eravamo alla disperata ricerca di un posto in cui poter passare la notte. Un
posto dove passare la notte, un altro dove parcheggiare la Snoopy mobile,
uno ancora per mangiare, un Tourist Office per organizzare un’escursione
sulla barriera corallina eeee… Cominciammo dal Tourist Office e nel giro di
mezz’ora avevamo già prenotato un’uscita di tre giorni su una barca ancorata
nel bel mezzo della Great Barrier Reef. Quella sera era il compleanno di
Mario e dovevamo festeggiarlo in maniera decente.
Il nostro rapporto nei suoi confronti si era sviluppato attraverso un mix di
amore fraterno e odio perverso, forse a causa della sua doppia naturale
personalità. Non è facile celare il carattere di un siciliano emigrato in
Germania con la smania dell’avventura come era lui. Ti poteva far ridere per
giorni interi quando l’io siculo prendeva forma, poi, a tratti, riaffiorava
prepotente la precisione e l’ira del tedesco würstel e patate lesse che non
stava ad ascoltare nessuno se non il suo senso del dovere e del regolamento.
Diventava infantile e ingombrante, non ci si ragionava in nessun modo e
l’unica maniera per ripristinare una situazione di reciproco sound era
quella di ignorarlo e far trascorrere del tempo. Ad ogni modo (o almeno per
come l’ho sempre considerato) era una persona da stimare e ringraziare
perché indirettamente era solo grazie a lui che stavamo vivendo quell’avventura.
Non c’entra un cazzo con quello che stavo narrando ma, visto che si tratta
di Mario e che proprio oggi mi ha scritto due righe sulla posta elettronica,
volevo prendere la palla al balzo e lasciare una traccia evidente di come
comunicava, con le consonanti dure tipiche dei crucchi e l’accento mafioso:
era qualcosa di idilliaco e noi (io e Giovi) ripetevamo in continuazione che
avrebbe dovuto condurre una qualche trasmissione televisiva o fare cabaret
perché, veramente, bastava che aprisse la bocca per fare pisciare addosso
dalle risate chi gli stava attorno.
Grande… dopo tre anni che non ci si sente, uno che ti scrive due righe così
è solamente grande…
“io non o siempre il internet a casa ai capito cazzo,
quanto vieni ?? giovanni come sta? ohh scolta, se io non di scrivo per
5 anni voltire niente,lo sai come sono amigo.
e il internet-cafe non celo tempo.
come mai michiele?
spero che stai bene e giovanni
saluti ad laltro pazzo.
ciao
mario”
Va be’, chiusa parentesi.
Giravamo per Cairns come tre alieni. Questa era una città ben più grande
delle ultime che avevamo attraversato ed era decisamente la prima ad avere
una vita notturna con una quantità di pub, ristoranti, ostelli e discoteche
più alta della media con le strade piene di ragazzi. Qualcosa come Rimini
(esagerando come sempre con le similitudini) o Cattolica nelle serate di
fine estate. Giravamo come tre alieni, appunto, anche a Rimini; ad una certa
ora, si vaga tutti come alieni e a Cairns non fummo da meno. L’abbigliamento
era sempre lo stesso: infradito (su un paio di piedi che avevano tutti i
colori del mondo tranne quello della pelle), pantaloncini da mare e
maglietta, tutto addosso da settimane, tutto il giorno, per ogni occasione.
Io avevo uno sfogo che mi corrodeva le anche e la parte alta del bacino a
forza di indossare sempre la stessa roba e sudando in continuazione a
contatto con il tessuto del sedile dell’auto.
La città era, insomma, viva. Ci infilammo in uno dei tanti pub del viale
principale, sviluppato su due piani e arredato completamente in legno. Quel
pub fu una salvezza soprattutto per Mario che poté distrarsi dalla paranoia
di aver perso cinquanta dollari poco prima, anche se ci vollero un po’ di
birre per cancellarla dai pensieri in maniera definitiva. Poi, quando la
serata prese la giusta piega, fu un crescendo di bicchieri fino all’apice
della serata in cui si brindò all’avventura che avevamo costruito insieme, a
ciò che ci avrebbe aspettato e a un trio (il nostro appunto) veramente
particolare. Fummo gli ultimi ad abbandonare il locale mentre sulla strada
si riversavano tutti i mostri cacciati dagli altri pub e che si accalcavano
(come noi) ai baracchini di hot dog per riempire lo stomaco devastato da
ogni tipo di droga. Era un po’ come tornare indietro di qualche mese, fino
al Bar Gladesh, con la differenza che ora eravamo dall’altra parte del
bancone a chiedere un panino pieno di sbobba alle cinque del mattino.
Le prime luci dell’alba ci ricordarono che solamente due ore più tardi
saremmo dovuti salire sul motoscafo che ci avrebbe traghettati fino allo
zatterone ancorato nel mezzo della barriera corallina per tre giorni
consecutivi e solamente allora ci rendemmo conto di quanto avevamo bevuto
quella sera, con le tempie che pulsavano litri di nausea e le orecchie che
vomitavano striduli fischi senza sosta. A fatica e con le gambe scariche
raggiungemmo la mitica e fedelissima Snoopy Mobile parcheggiata nel garage
di un albergo che ci avrebbe ospitato fino allo squillo della sveglia
programmata per le sette e mezza ma che nessuno si ricordò di attivare.
Fortunatamente o malauguratamente la sbornia era talmente alta che prendere
sonno era praticamente una pura utopia; ogni minimo rumore o spiraglio di
luce amplificava le pulsazioni della testa che sembrava essere sempre in
procinto di esplodere. Sta di fatto che io (non so se Giovanni e Mario ci
riuscirono) rimasi, sebbene in uno stato vegetativo, sempre sveglio
aspettando che aprisse nuovamente qualche chiosco per poter mettere qualcosa
sotto i denti in vista, soprattutto, della giornata che dovevamo affrontare.
Alle sette e tre quarti eravamo al molo a fissare nel vuoto il barcone su
cui dovevamo montare e già Mario aveva i conati di vomito solamente
guardando le onde che si infrangevano contro le barriere di cemento del
porticciolo. Facce verdi e occhi ribaltati verso l’interno, come zombie. Il
mare non fu affatto clemente tant’è che ci vollero tre ore buone per
raggiungere la chiatta che faceva da base per le nostre escursione
sottomarine. Quella sorta di casa galleggiante si sviluppava su tre piani:
il primo era il ritrovo generale dove si faceva colazione, si pranzava e si
cenava, si tenevano corsi di Diving, ci si radunava. Il secondo e il terzo
erano adibiti alle cuccette per la notte, con i bagni in comune. Le scale
che portavano di sopra, così come tutta la pavimentazione delle zone
superiori, erano in ferro verniciato cosicché quando pioveva la barca si
trasformava in una magnifica trappola scivolosa soprattutto per chi aveva la
cuccetta all’ultimo piano e ogni volta si dovevano fare due rampe di scale e
due ponti. Inoltre, visto il periodo dell’anno, eravamo nel pieno della
stagione delle piogge che nel Queensland del Nord, quando comincia, colpisce
in maniera fitta e violenta. Il mare non era certo dei più quieti quel primo
giorno e così le onde, che al primo piano potevano essere noiose e forse
creare qualche leggero senso di nausea, al terzo piano causavano
oscillazioni incredibili che invece di cullarti fra le lenzuola ti
scaraventavano da una parte all’altra della branda con conseguenti craniate
contro la struttura del letto a castello. Mi sto inventando tutto? No,
perché a noi (e solamente noi tre cazzo) erano state riservate proprio
quelle cuccette in cui, come se non bastasse, si infiltrava pure l’acqua
piovana (altro che Moby Dick e il capitano Achab). Mario riacquistò la
parola solo il giorno seguente.
Sotto l’acqua c’è il mondo perfetto, un mondo di silenzio in cui fluttui
morbido verso ogni direzione e comunichi con gli occhi e le mani e sei
leggero. Sotto l’acqua si mischia tutto alla perfezione, seguendo la stessa
corrente…[] Senti solo il tuo respiro, che forse non sapevi nemmeno avere un
suono, una vibrazione forte dentro di te, e lo senti uscire dai polmoni e
venire su fino alla gola, la bocca e materializzarsi in numerose bolle
veloci che salgono in superficie, tornano al loro mondo mentre tu rimani
sotto, con gli occhi spalancati dietro al vetro temperato della maschera e
ogni tanto guardi su, da dove ti sei buttato e da dove, ogni tanto, filtra
più vivido qualche raggio di luce.
Poi quello che c’è sotto al mare lo sanno tutti…
Risalimmo in superficie venti minuti dopo poiché avevamo esaurito la scorta
d’ossigeno nelle bombole; Giovanni era stato tutto il tempo sotto senza aver
capito bene come compensare la pressione esercitata dall’acqua sui timpani
delle orecchie e si era così procurato la rottura dei capillari del naso che
gli avevano riempito mezza maschera di sangue. Mario, invece, non risaliva
più, sebbene avesse esaurito la scorta pure lui ma lo spettacolo offerto la
sotto era talmente stupefacente che ci sarebbe rimasto a vita.
In attesa della cena giocammo a Back Gammon che, assieme a Monopoli, era il
gioco in scatola più gettonato del viaggio. (anche se ora non mi ricordo già
più le regole)
Subito dietro Cairns la foresta si impennava imperiosa in un groviglio di
piante, liane, mangrovie impenetrabili e tagliate qua e là da qualche strada
asfaltata che arrampicava le montagne con una serie di tornanti. Si saliva
fino ad arrivare ad uno spiazzo in cima alla collina in cui si sviluppava un
mercatino costruito su bancarelle di legno, bamboo o semplici angoli
ritagliati per caso in modo da esporre qualsiasi tipo di merce: dalle pelli
di canguro, ai boomerang aborigeni o unguenti di ogni sorta per la cura del
corpo e della mente. Tutto attorno si rovesciavano moltitudini di piante,
ogni variazione di verde, ogni variazione di marrone a ricordarci dove
eravamo. In fondo la magnificenza di certi luoghi è rappresentata proprio da
ciò che offre la natura e quando capita di attraversare il tropico del
capricorno ci si sente quasi affogati dalla potenza sprigionata dagli agenti
naturali che accelerano notevolmente tutti ritmi evolutivi della vita. Come
i pipistrelli incontrati dalle parti di Brisbane o le mosche giganti che ci
accompagnavano in ogni momento durante la tre giorni a Fraser Island o le
tettone di Byron Bay, tutto era più grande, più bello e più sviluppato
rispetto allo standard a cui eravamo abituati noi.
C’era una via, una sola, che da quella piazzetta si allontanava per
intrufolarsi fra le fronde degli alberi e percorrendola si poteva
costeggiare la ferrovia del trenino che ogni tanto faceva sentire la sua
voce, carico di turisti, fra i rami e le rocce umide.[]
Quella via portava un po’ più lontano rispetto al tragitto del trenino, o
più vicino; dipende da dove la vogliamo vedere.
Portava più lontano (o più vicino) perché ad un certo punto, se si era a
piedi, si sgretolava dileguandosi fra le pietre del letto di quello che
poteva essere un fiume in secca. Così, quasi senza accorgertene, ti
ritrovavi ad annaspare fra sassi più o meno levigati, rami spezzati, grandi
massi di rocce aguzze e bianchissime. Ma era tutto molto triste, faceva
tutto parte di qualcosa che era ormai andato, che non aveva più senso; ciò
che restava di un fiume, della sua potenza, del suo rumore, era freddamente
raccontato da quell’insieme di rocce stantie e senza senso. Saremmo dovuti
tornare indietro, lasciar perdere. Inoltre in lontananza, spuntava la colata
di cemento di una diga abbandonata e il paesaggio era, allora, veramente
squallido.
Ah si. C’erano anche altri tre ragazzi (due ragazze e un ragazzo) che
camminavano più avanti in quella desolazione. Stavamo per tornare indietro
quando vedemmo cosa c’era dietro la diga. La montagna si squarciava sotto di
noi in una gola soffice e color smeraldo e il percorso del fiume che vi
rotolava giù era ancora segnato dall’acqua che riposava nei bacini naturali
scavati dal getto potente della caduta e che avevano dato vita ad una serie
di piscine a terrazza che si ripetevano fino alla base della valle.[]
Lo spettacolo era sensazionale: alle spalle la carcassa di un fiume che,
sicuramente, con le prime piogge torrenziali, avrebbe ripreso a vivere,
mentre davanti il capolavoro che la sua azione aveva prodotto negli anni.
Passammo l’intero pomeriggio a tuffarci da una vasca all’altra, rischiando
anche l’osso del collo perché nessuno sapeva esattamente quale fosse la
profondità di ogni specchio d’acqua. Poi tornammo alla macchina seguendo le
rotaie della ferrovia… Era il nostro ultimo giorno a Cairns. Ancora più a
nord, poco più a nord: Cape Tribulation. |