CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

7. FRA CAIRNS…

Fra Cairns e Cape Tribulation non c’è niente, tranne la certezza di essere sempre sudati.
Arrivammo verso sera, ora di cena, ma non avevamo che pochi dollari ed eravamo alla disperata ricerca di un posto in cui poter passare la notte. Un posto dove passare la notte, un altro dove parcheggiare la Snoopy mobile, uno ancora per mangiare, un Tourist Office per organizzare un’escursione sulla barriera corallina eeee… Cominciammo dal Tourist Office e nel giro di mezz’ora avevamo già prenotato un’uscita di tre giorni su una barca ancorata nel bel mezzo della Great Barrier Reef. Quella sera era il compleanno di Mario e dovevamo festeggiarlo in maniera decente.
Il nostro rapporto nei suoi confronti si era sviluppato attraverso un mix di amore fraterno e odio perverso, forse a causa della sua doppia naturale personalità. Non è facile celare il carattere di un siciliano emigrato in Germania con la smania dell’avventura come era lui. Ti poteva far ridere per giorni interi quando l’io siculo prendeva forma, poi, a tratti, riaffiorava prepotente la precisione e l’ira del tedesco würstel e patate lesse che non stava ad ascoltare nessuno se non il suo senso del dovere e del regolamento. Diventava infantile e ingombrante, non ci si ragionava in nessun modo e l’unica maniera per ripristinare una situazione di reciproco sound era quella di ignorarlo e far trascorrere del tempo. Ad ogni modo (o almeno per come l’ho sempre considerato) era una persona da stimare e ringraziare perché indirettamente era solo grazie a lui che stavamo vivendo quell’avventura.
Non c’entra un cazzo con quello che stavo narrando ma, visto che si tratta di Mario e che proprio oggi mi ha scritto due righe sulla posta elettronica, volevo prendere la palla al balzo e lasciare una traccia evidente di come comunicava, con le consonanti dure tipiche dei crucchi e l’accento mafioso: era qualcosa di idilliaco e noi (io e Giovi) ripetevamo in continuazione che avrebbe dovuto condurre una qualche trasmissione televisiva o fare cabaret perché, veramente, bastava che aprisse la bocca per fare pisciare addosso dalle risate chi gli stava attorno.
Grande… dopo tre anni che non ci si sente, uno che ti scrive due righe così è solamente grande…

“io non o siempre il internet a casa ai capito cazzo,
quanto vieni ?? giovanni come sta? ohh scolta, se io non di scrivo per
5 anni voltire niente,lo sai come sono amigo.
e il internet-cafe non celo tempo.
come mai michiele?
spero che stai bene e giovanni
saluti ad laltro pazzo.
ciao
mario”

Va be’, chiusa parentesi.
Giravamo per Cairns come tre alieni. Questa era una città ben più grande delle ultime che avevamo attraversato ed era decisamente la prima ad avere una vita notturna con una quantità di pub, ristoranti, ostelli e discoteche più alta della media con le strade piene di ragazzi. Qualcosa come Rimini (esagerando come sempre con le similitudini) o Cattolica nelle serate di fine estate. Giravamo come tre alieni, appunto, anche a Rimini; ad una certa ora, si vaga tutti come alieni e a Cairns non fummo da meno. L’abbigliamento era sempre lo stesso: infradito (su un paio di piedi che avevano tutti i colori del mondo tranne quello della pelle), pantaloncini da mare e maglietta, tutto addosso da settimane, tutto il giorno, per ogni occasione. Io avevo uno sfogo che mi corrodeva le anche e la parte alta del bacino a forza di indossare sempre la stessa roba e sudando in continuazione a contatto con il tessuto del sedile dell’auto.
La città era, insomma, viva. Ci infilammo in uno dei tanti pub del viale principale, sviluppato su due piani e arredato completamente in legno. Quel pub fu una salvezza soprattutto per Mario che poté distrarsi dalla paranoia di aver perso cinquanta dollari poco prima, anche se ci vollero un po’ di birre per cancellarla dai pensieri in maniera definitiva. Poi, quando la serata prese la giusta piega, fu un crescendo di bicchieri fino all’apice della serata in cui si brindò all’avventura che avevamo costruito insieme, a ciò che ci avrebbe aspettato e a un trio (il nostro appunto) veramente particolare. Fummo gli ultimi ad abbandonare il locale mentre sulla strada si riversavano tutti i mostri cacciati dagli altri pub e che si accalcavano (come noi) ai baracchini di hot dog per riempire lo stomaco devastato da ogni tipo di droga. Era un po’ come tornare indietro di qualche mese, fino al Bar Gladesh, con la differenza che ora eravamo dall’altra parte del bancone a chiedere un panino pieno di sbobba alle cinque del mattino.
Le prime luci dell’alba ci ricordarono che solamente due ore più tardi saremmo dovuti salire sul motoscafo che ci avrebbe traghettati fino allo zatterone ancorato nel mezzo della barriera corallina per tre giorni consecutivi e solamente allora ci rendemmo conto di quanto avevamo bevuto quella sera, con le tempie che pulsavano litri di nausea e le orecchie che vomitavano striduli fischi senza sosta. A fatica e con le gambe scariche raggiungemmo la mitica e fedelissima Snoopy Mobile parcheggiata nel garage di un albergo che ci avrebbe ospitato fino allo squillo della sveglia programmata per le sette e mezza ma che nessuno si ricordò di attivare. Fortunatamente o malauguratamente la sbornia era talmente alta che prendere sonno era praticamente una pura utopia; ogni minimo rumore o spiraglio di luce amplificava le pulsazioni della testa che sembrava essere sempre in procinto di esplodere. Sta di fatto che io (non so se Giovanni e Mario ci riuscirono) rimasi, sebbene in uno stato vegetativo, sempre sveglio aspettando che aprisse nuovamente qualche chiosco per poter mettere qualcosa sotto i denti in vista, soprattutto, della giornata che dovevamo affrontare. Alle sette e tre quarti eravamo al molo a fissare nel vuoto il barcone su cui dovevamo montare e già Mario aveva i conati di vomito solamente guardando le onde che si infrangevano contro le barriere di cemento del porticciolo. Facce verdi e occhi ribaltati verso l’interno, come zombie. Il mare non fu affatto clemente tant’è che ci vollero tre ore buone per raggiungere la chiatta che faceva da base per le nostre escursione sottomarine. Quella sorta di casa galleggiante si sviluppava su tre piani: il primo era il ritrovo generale dove si faceva colazione, si pranzava e si cenava, si tenevano corsi di Diving, ci si radunava. Il secondo e il terzo erano adibiti alle cuccette per la notte, con i bagni in comune. Le scale che portavano di sopra, così come tutta la pavimentazione delle zone superiori, erano in ferro verniciato cosicché quando pioveva la barca si trasformava in una magnifica trappola scivolosa soprattutto per chi aveva la cuccetta all’ultimo piano e ogni volta si dovevano fare due rampe di scale e due ponti. Inoltre, visto il periodo dell’anno, eravamo nel pieno della stagione delle piogge che nel Queensland del Nord, quando comincia, colpisce in maniera fitta e violenta. Il mare non era certo dei più quieti quel primo giorno e così le onde, che al primo piano potevano essere noiose e forse creare qualche leggero senso di nausea, al terzo piano causavano oscillazioni incredibili che invece di cullarti fra le lenzuola ti scaraventavano da una parte all’altra della branda con conseguenti craniate contro la struttura del letto a castello. Mi sto inventando tutto? No, perché a noi (e solamente noi tre cazzo) erano state riservate proprio quelle cuccette in cui, come se non bastasse, si infiltrava pure l’acqua piovana (altro che Moby Dick e il capitano Achab). Mario riacquistò la parola solo il giorno seguente.
Sotto l’acqua c’è il mondo perfetto, un mondo di silenzio in cui fluttui morbido verso ogni direzione e comunichi con gli occhi e le mani e sei leggero. Sotto l’acqua si mischia tutto alla perfezione, seguendo la stessa corrente…[] Senti solo il tuo respiro, che forse non sapevi nemmeno avere un suono, una vibrazione forte dentro di te, e lo senti uscire dai polmoni e venire su fino alla gola, la bocca e materializzarsi in numerose bolle veloci che salgono in superficie, tornano al loro mondo mentre tu rimani sotto, con gli occhi spalancati dietro al vetro temperato della maschera e ogni tanto guardi su, da dove ti sei buttato e da dove, ogni tanto, filtra più vivido qualche raggio di luce.
Poi quello che c’è sotto al mare lo sanno tutti…
Risalimmo in superficie venti minuti dopo poiché avevamo esaurito la scorta d’ossigeno nelle bombole; Giovanni era stato tutto il tempo sotto senza aver capito bene come compensare la pressione esercitata dall’acqua sui timpani delle orecchie e si era così procurato la rottura dei capillari del naso che gli avevano riempito mezza maschera di sangue. Mario, invece, non risaliva più, sebbene avesse esaurito la scorta pure lui ma lo spettacolo offerto la sotto era talmente stupefacente che ci sarebbe rimasto a vita.
In attesa della cena giocammo a Back Gammon che, assieme a Monopoli, era il gioco in scatola più gettonato del viaggio. (anche se ora non mi ricordo già più le regole)
Subito dietro Cairns la foresta si impennava imperiosa in un groviglio di piante, liane, mangrovie impenetrabili e tagliate qua e là da qualche strada asfaltata che arrampicava le montagne con una serie di tornanti. Si saliva fino ad arrivare ad uno spiazzo in cima alla collina in cui si sviluppava un mercatino costruito su bancarelle di legno, bamboo o semplici angoli ritagliati per caso in modo da esporre qualsiasi tipo di merce: dalle pelli di canguro, ai boomerang aborigeni o unguenti di ogni sorta per la cura del corpo e della mente. Tutto attorno si rovesciavano moltitudini di piante, ogni variazione di verde, ogni variazione di marrone a ricordarci dove eravamo. In fondo la magnificenza di certi luoghi è rappresentata proprio da ciò che offre la natura e quando capita di attraversare il tropico del capricorno ci si sente quasi affogati dalla potenza sprigionata dagli agenti naturali che accelerano notevolmente tutti ritmi evolutivi della vita. Come i pipistrelli incontrati dalle parti di Brisbane o le mosche giganti che ci accompagnavano in ogni momento durante la tre giorni a Fraser Island o le tettone di Byron Bay, tutto era più grande, più bello e più sviluppato rispetto allo standard a cui eravamo abituati noi.
C’era una via, una sola, che da quella piazzetta si allontanava per intrufolarsi fra le fronde degli alberi e percorrendola si poteva costeggiare la ferrovia del trenino che ogni tanto faceva sentire la sua voce, carico di turisti, fra i rami e le rocce umide.[]
Quella via portava un po’ più lontano rispetto al tragitto del trenino, o più vicino; dipende da dove la vogliamo vedere.
Portava più lontano (o più vicino) perché ad un certo punto, se si era a piedi, si sgretolava dileguandosi fra le pietre del letto di quello che poteva essere un fiume in secca. Così, quasi senza accorgertene, ti ritrovavi ad annaspare fra sassi più o meno levigati, rami spezzati, grandi massi di rocce aguzze e bianchissime. Ma era tutto molto triste, faceva tutto parte di qualcosa che era ormai andato, che non aveva più senso; ciò che restava di un fiume, della sua potenza, del suo rumore, era freddamente raccontato da quell’insieme di rocce stantie e senza senso. Saremmo dovuti tornare indietro, lasciar perdere. Inoltre in lontananza, spuntava la colata di cemento di una diga abbandonata e il paesaggio era, allora, veramente squallido.
Ah si. C’erano anche altri tre ragazzi (due ragazze e un ragazzo) che camminavano più avanti in quella desolazione. Stavamo per tornare indietro quando vedemmo cosa c’era dietro la diga. La montagna si squarciava sotto di noi in una gola soffice e color smeraldo e il percorso del fiume che vi rotolava giù era ancora segnato dall’acqua che riposava nei bacini naturali scavati dal getto potente della caduta e che avevano dato vita ad una serie di piscine a terrazza che si ripetevano fino alla base della valle.[]
Lo spettacolo era sensazionale: alle spalle la carcassa di un fiume che, sicuramente, con le prime piogge torrenziali, avrebbe ripreso a vivere, mentre davanti il capolavoro che la sua azione aveva prodotto negli anni.
Passammo l’intero pomeriggio a tuffarci da una vasca all’altra, rischiando anche l’osso del collo perché nessuno sapeva esattamente quale fosse la profondità di ogni specchio d’acqua. Poi tornammo alla macchina seguendo le rotaie della ferrovia… Era il nostro ultimo giorno a Cairns. Ancora più a nord, poco più a nord: Cape Tribulation.

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