‘Deep inside in a parallel Universe…’
Quel disco dei Red Hot Chili Peppers non mi è mai piaciuto, un cesto di
canzoni orecchiabili che nauseavano già dai primissimi ascolti. Non che
fosse robaccia, ma loro avevano fatto molto meglio negli anni precedenti e
avrebbero potuto lasciare certe melodie a gruppi più sobri ed
insignificanti. Con quell’album si erano sputtanati decretando così l’inizio
di una parabola discendente.
Ma la cassetta era in macchina e spesso veniva inserita nel mangianastri
sebbene avessimo un repertorio di tutto rispetto fra cui: Skiantos, Clash,
Vasco (con il bellissimo e abbronzatissimo Maurizio Solieri…), Pink Floyd,
Morcheeba.
Eravamo diretti a nord, più su possibile, anche perché eravamo ormai
sfuggiti alla calura insopportabile dell’entroterra e stavamo puntando verso
l’area pluviale del continente, tropico del capricorno, umidità elevata,
grandi piogge, grandissime piante, trecce di mangrovie e lingue di cascate a
ripetizione.[] La strada era cambiata e ogni tanto incontravamo cittadine più
o meno popolate ma sempre immerse nel verde. La sensazione che avevo (agli
altri non l’ho mai detto) era quella di viaggiare nella campagna irlandese,
o scozzese, qualcosa che fosse molto simile ad uno scenario di folletti e
gnomi di bosco. Tappeti naturali inumiditi ventiquattro ore su ventiquattro
dalle secchiate che lanciava il cielo, nero, grigio, azzurro con un sole
immenso e poi di nuovo cumuli nembi: palle di marmo appese sulla testa come
una coperta fitta e spessa. Era bello guardarle da dietro il vetro dei
finestrini che avanzavano con noi o che ci venivano contro.[]
In quei momenti pensavo a duemila cose contemporaneamente, pensavo a dove
eravamo diretti, pensavo al silenzio che a volte imperava nell’auto, a Mario
che fumava in continuazione e tante altre cose inafferrabili. La meta certa
era Cairns, perché era la maggiore città dello stato del Queensland (ed era
tappa obbligata), punta di diamante per ciò che riguardava le escursioni
alla barriera corallina oltre ad essere una bella sorsata dissetante dopo un
periodo trascorso da soli. Avevamo una certa necessità di rivedere un po’
più di gente assieme, più negozi, più vita, così, per variare un po’, per
modulare le situazioni e non annoiarsi magari per ulteriori tempi morti.
Sydney, in fondo, era stata l’ultima vera Metropoli in cui avevamo dormito,
in tutti i sensi.
Non avevamo più toccato un materasso (tranne quei due giorni a Byron Bay,
forse) e ogni volta che calava il sole iniziavamo a pensare in quale luogo
e, soprattutto, in che modo avremmo trascorso la notte. Avevamo una tenda
minima, calcolata per due, mentre noi ci entravamo in tre, con tutti gli
zaini e anche le cose da mangiare. Se invece ci trovavamo ancora per strada
o la situazione non era delle migliori per poter piantare abusivamente una
tenda, decidevamo di dormire direttamente nella Snoopy Mobile, un po’
rannicchiati, con un occhio chiuso e l’altro aperto perché non si sa mai; e
comunque di spazio, li dentro, ce n’era. Uno si stendeva sui sedili
anteriori (la zona più scomoda visto gli ingombri del volante e del cambio),
uno su quelli posteriori e il terzo nel bagagliaio che, se vogliamo, era
forse il posto più ambito a parte qualche spuntone che ogni tanto
fuoriusciva dalle borse sottostanti (tipo il cavalletto per la macchina
fotografica di Mario) e che si conficcava dritto contro la schiena o in una
coscia (…o su per il culo… scherzo!) nel bel mezzo della notte.
Non pagavamo quasi mai i campeggi in cui dormivamo e, veramente, dormivamo
molto poco in quei pochi in cui penetravamo abusivamente. La tecnica era
banale e consisteva nell’arrivare tardi, molto tardi, quando ormai alla
reception non c’era più nessuno. L’Australia funziona un po’ tutta così.
Sono tutti, più o meno, figli di deportati (o così è come la considera il
mondo) ma questo passato burrascoso sembra non essergli servito a niente. La
loro ingenuità fanciullesca nei confronti della vita e una certa
considerazione pura e cristallina, immacolata dell’animo umano pervade tutta
la loro cultura. Non la nostra. Europei ma italiani in particolar modo, non
esistono porte aperte senza un guardiano, pompe di benzina incustodite,
supermercati senza controlli; no. Niente di tutto questo nel vecchio
continente e forse (anzi sicuramente anche se non l’ho ancora visitato)
neanche nel nuovo, ma nel nuovissimo tutto ciò è routine quotidiana e così
arrivavamo in campeggio. Alle ventitre o a mezzanotte piantavamo la tenda e
all’alba, senza disturbo, caricavamo tutto nuovamente sulla Snoopy Mobile
per macinare altre centinaia di chilometri. Ricordo quando una notte, verso
le tre o le quattro, o anche prima o dopo, non lo so, di sicuro era tardi ed
eravamo completamente esausti dopo ore ed ore al volante, non trovando
neanche mezzo camping decidemmo di accostare in una piccola strada non
asfaltata che correva parallela ad una ferrovia, in campagna, nei pressi di
un pollaio o qualcosa di simile, visto l’odore che c’era. L’aria era calda,
appiccicosa, aveva piovuto da dieci minuti e fra altri dieci avrebbe piovuto
di nuovo. Ma non si riusciva a dormire, assolutamente, ogni tanto passava un
treno, poi un road train, poi pioveva e sembravano sassi sul cofano, sul
tetto e bisognava tenere i finestrini chiusi per non fare entrare l’acqua,
ma era un caldo soffocante e i sedili si impregnavano di sudore. Basta, ci
alzammo più stanchi di prima per cercare un posto che desse miglior sollievo
ma, al momento di mettere in moto l’auto, la batteria, utilizzata nel
frattempo per ascoltare un po’ di musica di sottofondo, non dava più segno
di vita. La mettemmo in moto a spinta, faticosamente e con le ruote
completamente infossate in quella che, dopo ore di diluvio, era diventata
una vera e propria palude. Sudici e inzuppati dalla testa ai piedi,
nell’oscurità di una notte tropicale, guidammo alla ricerca della città più
vicina che raggiungemmo dopo mezz’ora o tre quarti. Qui, distrutti dalla
stanchezza, utilizzammo quella poca voglia di sbatterci che ci era rimasta,
per buttare la tenda in un parco appartato, al riparo sotto alcuni alberi
vicino ad un cesso pubblico. Perfetto, un posticino giusto per trascorrere
in pace le ultime ore della notte… col cazzo.
In Australia è vietato campeggiare nei luoghi pubblici, nei parchi, per
strada (praticamente i nostri preferiti) e infatti, all’alba, fummo
bruscamente svegliati dalla guardia del paese che faceva il solito giro di
ricognizione a controllare se tutto fosse ok e in quello spiazzo c’era
proprio qualcosa che non andava: una tenda piantata.
Con la torcia puntata sul volto e gli occhi gonfi e rossi fummo costretti,
di nuovo, a smantellare tutto l’ambaradan, mostrargli i documenti sperando
di passarla liscia (non era la prima volta che ci imbattevamo nella polizia
e ogni volta era un terno al Lotto sulla probabilità di ricevere multe
esorbitanti o addirittura il timbro di espulsione sul passaporto) ancora una
volta. L’ultima volta che ci scontrammo con dei poliziotti fu a Byron Bay
quando, dopo una serie di pinte di birra, ci sorpresero (o meglio mi
sorpresero) a pisciare dietro un cespuglio in spiaggia rischiando (a loro
dire) qualche giorno di galera o l’espulsione da lì per cinque anni. Poi
nuovamente a Warren quando, appena arrivati, ci sedemmo in un parco
mangiando pollo e bevendo due birre all’ombra di un albero.
La mitica e strampalata legge australiana non permette infatti di
sorseggiare qualsiasi tipo di alcolico all’esterno di un locale a meno che
questo (l’alcolico) non sia ben avvolto in un cartoccio, così da evitare la
libera ‘pubblicità’ di questa orrenda piaga sociale. Ma gli australiani sono
tutti birra-dipendenti (per non parlare poi del whisky) e a cosa serve, poi,
nascondere una sostanza che ritieni pericolosa socialmente dietro un
cartoccio, se tutti quanti sanno che dietro quel cartoccio (visto che il
resto delle bibite si possono bere liberamente) ci sono solo alcolici? . . .
A U S T R A L I A .
Poi polizia anche a Stanthorpe e pure nel viaggio di ritorno verso la costa
quando ci fermammo in una fattoria di un contadino a chiedergli se, per
caso, aveva del formaggio o latte da venderci e lui, con un sorriso
innocente e dopo averci detto che non aveva niente del genere (ma aveva
centinaia fra mucche e galline), pensò bene di avvertire una pattuglia di
sbirri che ci seguirono fino a che non fummo scivolati oltre la linea
dell’orizzonte. Si, da questo punto di vista, alcuni uomini del bush, sono
poco affabili.
Ed ora che eravamo al cospetto dell’ennesimo poliziotto non potevamo fare
altro che recitare il solito, stupido ma efficace copione fatto di scuse,
facce stupefatte ed ignare delle leggi del posto. Più o meno questo era il
film, che, generalmente, ci salvava dalla multa.
Ripartimmo, sempre più stanchi e fradici, verso il nulla, alla ricerca di
niente, con le gambe più stanche degli occhi e gli occhi stanchi come
l’umidità che c’era attorno mentre tutto attorno iniziava già ad albeggiare.
Dopo qualche tempo in macchina arrivammo ad un camping veramente lussuoso e,
soprattutto, disabitato. Era pieno di ogni comfort e nella penombra si
intravedevano tende, bungalows, roulottes, una piscina spettacolare e un
prato quasi finto di erbetta verde ed umida. Sotto un cielo limpido, da poco
svuotatosi dell’acqua che aveva scaricato su di noi tutta la notte, il
gracchiare delle rane era una melodia incessante alternata al battito d’ali
di pipistrelli almeno quattro volte più grandi di quelli che di solito
ruotano attorno alla luce dei lampioni delle nostre città. Sembravano
gabbiani in pelle nera lucida, draghi di altri tempi sopravvissuti alle
variazioni climatiche nel corso dei secoli… ma erano solo pipistrelli con
un’apertura alare di un metro e mezzo… forse.
Riuscimmo a dormire quelle tre ore necessarie per riprendere le forze e non
pagare il campeggio. Eravamo sempre in fuga e non avevamo nessuna meta:
Viaggio perfetto. Ogni tanto a Mario saltava in mente di riprovare
l’esperienza lavorativa; quelle erano ancora zone piene di campi adibiti
alla coltivazione di frutta o ortaggi ma non ci credeva più di tanto neanche
lui; Warren ci aveva marchiati a fuoco al punto giusto da soppesare nel
migliore dei modi scelte simili. Non facevamo altro che macinare chilometri
su chilometri, rubando di tanto in tanto un pollo, due cassette per la
radio, la permanenza in un campeggio, un pieno di benzina non perché fossimo
ladri o cosa, faceva semplicemente tutto parte di un girovagare senza senso,
avevamo dimenticato ogni buona, sana regola che si possa imparare in
famiglia.
Ad un certo punto oltrepassammo il Tropico del Capricorno, e fissammo quel
momento con una bellissima foto, quasi fossimo dei pionieri ad aver valicato
un ostacolo mitico o cacciatori nella savana sulla carcassa di un leone
maschio.
Da lì in poi non fu altro che pioggia e ripide cascate, siringhe di acqua
potente che scrosciavano nelle spaccature delle montagne mentre Elvis, o
qualche altro cantante, invadeva con la sua voce lo spazio all’interno della
Snoopy Mobile.
Arrampicavamo dappertutto, bastava un minimo dettaglio, un paletto storto
sul ciglio della strada, una casa abbandonata in lontananza, un pascolo di
mucche più avanti per cambiare itinerario, alla ricerca di qualche cosa di
fantastico, ancora intatto, qualcosa che non fosse per forza segnato sulla
cartina o raccomandato da chissà chi. Durante la calda ed estenuante
esperienza fra i campi di Stanthorpe e Warren avevamo addirittura azzardato
l’impossibile con la nostra leggendaria rossa spingendola dritta dritta fra
gli arbusti e il terreno improbabile del bush per dare la caccia a un branco
di canguri. Poteva essere stata la parodia di qualche triste e cruda battuta
di caccia nella savana africana con la piccola differenza che al posto di
fucili e pistole noi puntavamo contro gli animali solo teleobiettivi.
E la stessa cosa si ripeté in quella occasione quando, proseguendo per la
statale che ci avrebbe condotti a Cairns, ai lati della strada spuntavano
come funghi indicazioni su indicazioni di cascate, laghetti, torrenti
nascosti da qualche parte là, nel mezzo, sotto. A caso imboccammo una
stradina sterrata rettilinea e piena zeppa di buche e pozzanghere, larga
appena per contenere i pneumatici delle ruote del mezzo. E ogni tanto essa
stessa si diramava in altrettanti sentieri che portavano all’infinito e
scomparivano nel verde del verde tropicale.
In quella stradina avvenne qualcosa di magico, qualcosa che aveva a che fare
con l’intuito, e che avrebbe rafforzato una volta di più la consapevolezza
che, in un certo senso, avevamo degli appuntamenti previsti lungo il nostro
girovagare casuale e senza senso.
Generalmente, durante il viaggio, le cose da osservare, capire e analizzare
erano infinite e così spesso capitava che non ci si soffermava più di tanto
a godere dello splendore di un paesaggio o di un’iguana in mezzo alla strada
perché già pochi metri dopo c’era qualcos’altro di altrettanto stupefacente
a richiamare l’attenzione. Proprio per questo, poi, i ricordi diventano
spesso pure e singole sensazioni e non istantanee dettagliate e specifiche
di ogni singolo momento del viaggio. E così accadde in quella stradina; io
sedevo sul sedile davanti e pensavo un po’ ai cazzi miei ottimamente
miscelati con il cielo plumbeo e l’aria pesantemente umida del pomeriggio
tropicale, Mario, inchiodato al volante, si fumava il solito cigarro e, con
il berretto da muratore arancione (che non si era mai tolto) infilato come
un calzino sulla testa, guidava lento e attento cercando di evitare il
maggior numero di buche possibili. E nel frattempo si guardava un po’ a
destra e un po’ a sinistra.
Giovanni era dietro, forse steso lungo tutto il sedile posteriore, e non so
a cosa pensasse quando i suoi occhi incrociarono uno dei cartelli che davano
il nome a quelle minuscole stradine laterali che andavano a morire nel
nulla: CAVALLARO’S ROAD.
Non ci potevamo credere, anche perché niente aveva un senso ma tutto,
secondo noi (e a questo punto parlo solo di me e Giovanni perché Mario non
poteva capire) tornava alla perfezione. Era una stupidaggine, sì, era una
coincidenza, sì, era un caso, sì, ma era vero. Era vero che neanche tre mesi
prima avevamo quasi deciso per due biglietti con destinazione Venezuela; poi
un amico ci consiglia l’Australia. Noi proviamo, e nel mezzo dell’avventura
(perché arrivati a quel punto eravamo proprio nel mezzo dell’avventura in
tutti i sensi) ci imbattiamo casualmente in una stradina impossibile da
individuare che porta il suo nome.
Che potere ha il caso?
Non lo so, fotografammo il cartello come fosse stata una pietra miliare, un
totem o … tutto quello che mi può passare ora nella mente sarebbe perfetto
per descrivere ciò che rappresentava quel cartello arrugginito in quel
momento preciso del viaggio. Continuammo per la stradina che, curvando in
salita, strisciava gradualmente sulla schiena della montagna fino a morire
sul bordo di un precipizio.
La Waterfall più grossa ci si presentò dinanzi quasi per caso, mentre
eravamo alla ricerca di un buon look-out che ci permettesse di ammirare la
pianura verde sottostante nel magnifico splendore alla fine del temporale.
Arrivammo fino in cima al monte, quindi, nei meandri della foresta, per
trovarci di fronte ad un rubinetto naturale di trecentodieci metri di caduta
in una gola di rocce nude e scivolose.
[] L’Australia è talmente grande e
disabitata che in ogni luogo ci si trovi, si è sempre e comunque più soli
rispetto a qualsiasi altro posto nel mondo e anche lì, sebbene la cascata
fosse rinomata ai più, eravamo sempre e solo noi. Mezz’ora di cammino fra
tronchi secolari, ricurvi su loro stessi, liane e rocce spigolose ci
condusse dritto dritto alla piscina scavata dalla potenza dell’acqua in una
patina di coriandoli di arcobaleno prodotti dalla rifrazione delle gocce con
la luce del giorno.[]
Non ricordo dove mangiammo dopo, se o cosa mangiammo, non ricordo bene; ad
ogni modo ci fermammo nel primo tourist office che incontrammo sulla strada
per fare una birra e collect some gifts (free of charge as usual… for us).
Giovi uscì dal negozio con due o tre libri sulla fauna e la flora dei
tropici australiani, Mario con qualche libro a proposito della barriera
corallina, io colleziono spillette e mi interessavo anche al look
storico-culturale della vettura che, col tempo, si riempiva di gadgets più o
meno scemi che le venivano appiccicati sulla carrozzeria a testimonianza
tangibile dell’avventura che lei stessa stava vivendo. C’era di tutto su
quei finestrini: da Muhammed Ali ai figurini delle varie città che avevamo
visitato, a Freddy Krueger. Non c’è senso in niente in questo mondo, perché
allora doveva esserci sulla nostra auto? Ah si, c’era anche l’indemoniata
dell’Esorcista e Dracula e qualche giorno dopo eravamo già a Cairns. |