CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

5. SULLA SABBIA DEL DINGO

Barriera corallina…
No, forse sono stato un po’ precipitoso. Non sapevamo, in realtà, dove saremmo andati dopo l’esperienza vissuta a Warren, nessuno aveva in testa un’idea precisa. Si pensava anche alla possibilità di cercare un nuovo lavoro; dopotutto avevamo lavorato solo quattro giorni e la strada che ci avrebbe condotti verso la costa era piena zeppa di campi agricoli: frutta, ortaggi, cotone (ancora), etc. anche se, forse, nessuno aveva realmente voglia di rischiare un’altra settimana in quel modo. Andavamo avanti, avanti, attraversando colline arse dal sole, mandrie di vacche al pascolo, pecore, e già intravedevamo qualche canguro che, al tramonto, faceva capolino dal ciglio della strada, curioso e allo stesso tempo impaurito dalla presenza nostra. Non è che passassero carovane di mezzi in quelle aree e per gli animali ogni auto era un evento ma col tempo capimmo il pericolo che rappresentavano quei bellissimi animali; alti quasi due metri per un peso che spesso superava i cento Kg.[]   E se avessero attraversato la strada proprio al nostro passaggio? L’ipotesi non era poi così azzardata, in particolar modo di notte, perché, non riconoscendo l’asfalto come ‘terreno amico’ e non sapendo come affrontarlo, grazie alla luce dei fari delle macchine e dei Road Trains riuscivano ad attraversare la strada e continuare i loro percorsi. Spesso però non raggiungevano l’altro lato e finivano tristemente sotto le ruote di qualche ferro da stiro o automobile. E contro le auto i danni, a volte, erano irreversibili (per le auto oltre che per loro). Di notte viaggiavamo quindi pochissimo e se lo facevamo guidavamo a velocità ridicole, qualcosa come i cinquanta o i sessanta e per coprire certe distanze ci mettevamo giornate intere. Così di giorno si procedeva cautamente per non fondere il motore, di notte per non investire il canguro. E comunque di giorno c’era il vantaggio del paesaggio, vallate mozzafiato e strade senza fine, rettilinee sempre e comunque e un cielo limpido che, al tramonto, evaporava in mille sfumature diverse, sempre più intense e calde, dal giallo ocra al viola passando per l’arancio, il rosso, porpora, fuxia… notte.
La macchina diventava una scatola in cui custodire i bagagli, il cibo, noi stessi e i nostri pensieri, in particolar modo il sedile posteriore. Solitamente colui che si trovava dietro non viveva la stessa situazione dei due davanti; esagerando potrei dire che non era considerato allo stesso modo, e forse era anche una cosa naturale. Davanti bisognava stare attenti alla strada, consultare la cartina, decidere se andare a destra o sinistra, avvistare i canguri, tenere sveglio Mario o dirgli di rallentare perché ogni tanto si lasciava prendere la mano e spingeva un po’ troppo sull’acceleratore. Dietro, invece, era più un limbo, una situazione di riposo fisico e mentale e in più, dato che le casse della radio erano posizionate nel bagagliaio, il volume era sempre troppo alto per chi stava dietro e sempre troppo basso per chi era davanti così che spesso non si riusciva nemmeno a comunicare da un ‘settore’ all’altro dell’abitacolo. Proprio questa condizione di ‘angolo sfigato’ del mezzo era la scusa giusta per staccare la spina e restare soli per qualche momento con un cuscino sotto la testa e i piedi (nudi) contro il finestrino. Giovanni, ad esempio, sfruttava questi attimi per consultare la guida, leggendo vita, morte e miracoli di paesi sconosciuti che avremmo potuto visitare o che (come capitava il novantanove per cento delle volte) avevamo già passato senza esserci fermati. Fu proprio durante il ritorno verso la Gold Coast che ci imbattemmo per caso nel Festival Country per eccellenza di una fra le tante cittadine del bush australiano. Naturalmente non si potrà pretendere che mi ricordi anche il nome di questo posto in cui arrivammo di sera per cena. L’atmosfera era sicuramente magica, con musicisti folk di qualsiasi età ad ogni angolo della strada che proponevano brani più o meno famosi fra la lunga lista dei pezzi country sfornati negli anni in tutto il mondo. Successivamente, sulla guida, leggemmo come quella manifestazione fosse la più popolare e seguita, a livello musicale, di tutta l’Australia. Un po’ come San Remo, insomma…
Le nostre visite in queste città avevano una durata massima di un giorno o due, toccata e fuga, toccata e fuga, toccata e fuga. Non fuggivamo da niente e nessuno ma passare una settimana in zone simili era per noi un suicidio e poi volevamo rivedere l’oceano, anche se era più che altro un bisogno mentale, un’idea generalizzata di freschezza rispetto a quelle terre infuocate ed ambigue. E noi le stavamo attraversando in tutta la loro sconfinata lunghezza sostando di tanto in tanto per fare il pieno, per mangiare un boccone, per un sorso di birra, per ‘comprare’ una cassetta da ascoltare in auto. Col tempo e con i chilometri macinati diventavamo sempre più scaltri e finti, soprattutto se si trattava di mangiare o ‘farsi prestare’ qualcosa di utile per noi o per la macchina. Non erano veri e propri furti. Erano più che altro dei test che facevamo a quei negozianti che, ingenuamente, agivano senza preoccuparsi della nostra presenza, tranquilli del fatto che, anche se fossimo rimasti soli nel loro bar per un quarto d’ora, non avremmo sicuramente preso niente di nascosto. Noi ci divertivamo a giocare con questi fantastici illusi e non appena si assentavano dieci minuti (DIECI MINUTI…) dalla loro postazione, noi riempivamo le tasche delle stronzate più inimmaginabili, dalle spillette laccate d’oro alle barrette da sgranocchiare, fino a fare scorte vere e proprie di olio lubrificante o ghiaccio da mettere nella tanica dell’acqua (e quest’ultimo era il furto più frequente visto che, come sempre, la temperatura media si aggirava attorno ai quaranta, quarantacinque gradi e ci si era pure rotta l’aria condizionata). E poi i pieni di benzina… E le musicassette??!??!!!?!!!

…DON’T KILL THE ANIMALS, THE ANIMALS ARE FREE…

Ecco, quando calava la notte ed eravamo ancora in viaggio, l’atmosfera che si respirava in macchina era morbida, torpore sobrio. Ognuno si chiudeva nei suoi silenzi, ogni tanto si incrociava un’auto, ogni tanto un camion, ogni tanto si schivava un canguro e a tratti comparivano dal buio timide luci di paesini addormentati, ovvero case costruite a destra e a sinistra della carreggiata per due, tre km e poi di nuovo il nulla. Una di quelle sere Mario lasciò la guida a me, saranno state le due di notte ed essendo abbastanza vicini alla meta, avevamo deciso di fare tutta una tirata verso Hervey Bay, località di mare poco sopra Brisbane. (il ‘vicino’ e il ‘poco’ sono, come sempre, due eufemismi). Visto che aveva guidato per diverse ore consecutivamente, era più che giusto lasciargli il letto (il sedile posteriore) libero per una meritata dormita mentre io prendevo il volante e Giovi, che nel frattempo si era riposato, faceva da navigatore. Stavamo abbandonando i cespugli secchi e la terra rossastra dell’interno per tornare agli alberi verdeggianti e ad un clima più temperato, stavamo ascoltando un pezzo dei Morcheeba dall’album ‘the big calm’ e stavamo praticamente viaggiando solo in due perché l’altro, non appena appoggiata la testa sul cuscino, già sognava da tempo. L’ultima volta che io e Giovi ci trovammo in un’auto a guidare nella notte fu poco prima di partire per quell’avventura mentre vagavamo per Pesaro fantasticando su come fosse stata l’Australia e come ci saremmo spostati. Quei due istanti si avvicinarono talmente tanto da sembrare lo stesso, fu come annullare il tempo nel buio della notte e dallo stupore per la coincidenza della situazione si passò in un attimo ad una risata di pazzia per la casualità delle cose. Involontariamente iniziavamo a renderci conto di come tutto ciò che stavamo vivendo (e molte erano esperienze positive) fosse governato dal caso, dall’intuizione di un istante che ci diceva di girare a sinistra piuttosto che dall’altra parte o di proseguire invece di restare. Inoltre, questo stato di cose, il fatto che niente fosse programmato e ogni singolo movimento nasceva più dall’esigenza di mangiare, dormire, divertirsi piuttosto che da una precisa mappa di tappe premeditate, era percepito sempre maggiormente come un flusso. Io parlo per me, si sa, ma credo che anche per Giovi e Mario la sensazione fosse quella di essere trascinati verso una direzione che non dipendeva da noi ma ci guidava per la strada e ci portava dove voleva. Potrei pensare che stavamo scendendo in una sorta di primitivismo in cui erano i fattori naturali del momento a governare le nostre scelte e non il contrario (come avviene oggi dalla rivoluzione industriale).
Con la dovuta calma arrivammo sulla costa fino al lungomare di Hervey Bay, altro paradiso sul pacifico come tutto il resto delle cittadine che si affacciano sulla costa est con una piccola variante rappresentata da una strana isoletta sbattuta a qualche km lì di fronte: Fraser Island. A dirla tutta pensavamo di sostare da quelle parti per una notte solamente, per fare tappa, riprendersi un attimo per poi riappoggiare il culo sui sedili e accendere nuovamente il motore ma c’era un amo a cui avevamo abboccato anzi, più di uno.
Passammo il pomeriggio a scolare birre in uno dei tanti pub che popolavano la strada principale. Era un luogo spazioso e ben aerato, con una vetrata apribile che si affacciava sulla spiaggia dando così la possibilità di osservare i passanti (le passanti, pardon) e qualche immancabile surfista, ma la giornata era uggiosa e iniziava anche a fare un po’ freschino. Dentro era pieno di tavoli da biliardo e televisioni che trasmettevano partite di qualsiasi tipo di sport con una certa prevalenza (70%) per quelli australiani e neozelandesi. Dopo le solite tre pinte a testa (ognuno pagava un giro) ci alzammo per mettere qualcosa sotto i denti: UN KEBAB. Potrei aprire un capitolo a parte per quel che riguarda l’argomento KEBAB, pasto primo della nostra alimentazione durante tutto il viaggio. La ‘cultura’ di questo tipico piatto turco ci fu tramandata quasi forzatamente da Mario che ne elogiava in ogni dove il caratteristico sapore e gli svariati retrogusti che vagavano nei nostri palati per le ore successive per non parlare poi del prezzo: non costava proprio un cazzo.
Il kebab è una sorta di crêpe/piadina salata che avvolge un mix di verdure fresche (fra cui pomodori, insalata, cetrioli, rape) innumerevoli salse più o meno disgustose e l’elemento principe caratterizzato da una tagliata di carne di maiale a pezzetti succosi, straunti e perciò ottimi. La preparazione di questo spuntino turco non invoglia molto il viandante affamato che vede questo ammasso di carne piantato in verticale su un perno d’acciaio che ruota su se stesso, circondato da una griglia di resistenze a temperature elevatissime che fanno così trasudare il tutto in un bagno di grasso e sapori pungenti. Come fosse un mega prosciutto allo spiedo, esso viene quindi tagliato a fette inserite ad arte nell’involucro della crêpe. SI POTREBBE RISCHIARE DI SVENIRE…
Mario andava matto per il kebab e ogni volta che ne mangiavamo uno ne decantava pregi e difetti rispetto al precedente anche se fino ad ora nessuno di quelli passati per suo il palato aveva superato il migliore che, secondo lui, veniva cucinato a S. Kilda, Melbourne, a due passi dall’autodromo di F1. “AAAH!!! Quello è Puta-Matre Kazzo, Kuando siamo a MMMELBÒRNE (??!?!!) vi porto lì e ne mangiamo tre, kazzo!!!!” E così ogni volta che si sedeva a mangiare in un chioschetto, mentre Melbourne era ‘solamente’ dalla parte opposta a dove eravamo diretti e va a capire se e quando ci saremmo mai arrivati. Distesi, relax, non dovevamo fare niente, non c’era nessuna sveglia il giorno dopo a suonare alle quattro e mezza del mattino; avevamo raggiunto la costa e deciso pure di restare un giorno in più lì per rallentare i ritmi, per fare un po’ di scorte e anche per capire cosa offriva il posto. Campeggiammo la notte in uno dei tanti campeggi della città, pieno zeppo di ragazzi che partivano per la barriera corallina (che si sviluppava, pressappoco, da lì in su fino a Cairns) o per Fraser Island. E noi decidemmo di seguirne alcuni sull’isola, con una jeep affittata per tre giorni, tende, fornelli e basta. Eravamo in undici a condividere quell’esperienza con il fuoristrada e ognuno apportava il suo contributo affinchè il week-end fosse il più perfetto possibile (niente è perfetto). I problemi nacquero da subito, dall’indomani, quando fu tempo di incontrarsi e decidere di comune accordo la spesa. Di comune accordo un cazzo. Vorrei aprire una piccola parentesi sulla comitiva in questione: noi tre, una coppia di tedeschi appena sposata e in viaggio di nozze (quella faceva parte di una fra le tante tappe della luna di miele), un altro tedesco solitario (appassionato di fotografia come Mario), tre ragazze inglesi che assomigliavano più a tre bomboloni che altro e due ragazze olandesi. A parte i commenti estetici o le simpatie/antipatie che potevano scaturire in un gruppo misto come quello, il fatto più sconcertante era che, dentro al supermercato, noi tre (a questo punto sarebbe meglio dire noi due perché Mario era anche un po’, molto, crucco) non contavamo assolutamente niente nella scelta dei prodotti da portare sull’isola. La spesa era basata al novanta per cento sulla dieta tipica anglo-germanica e comprendeva quindi würstel, patate fritte o lesse, salse schifose per colazione/pranzo/cena, Coca Cola, birra, uova, hamburgers e una serie di mushmallows rosa (ne avranno comperati sei pacchi) da ‘abbrustolire’ sul fuoco del falò la sera. Un suicidio fisico e culturale. Dovevamo assolutamente introdurre l’elemento ‘cucina italiana’ nelle loro testoline sorde e vuote ad ogni costo così, partendo dal più semplice dei piatti (Penne con sugo e olive nere) riuscimmo a caricare su quella jeep anche latte, vino, thè, NUTELLA, un po’ di digestivi e frutta. Se la spesa era stata decisa a certe condizioni dagli anglosassoni, i latini sforarono il budget previsto di almeno il cinquanta per cento.
Partimmo la mattina seguente.
Il fatto che avessimo dovuto affittare un fuoristrada 4x4 non era uno sfizio casuale ma una necessità: Fraser Island è, infatti, l’unica isola al mondo ad essere costituita interamente di sabbia (non esistono ne sassi, rocce o terra) e tutta la vegetazione che cresce li sopra vi penetra le sue radici con risultati stravolgenti. Ogni tanto, inoltre, compaiono qua e là laghetti naturali di acque limpide, dolci e potabili. Ogni volta che decido di addentrarmi nelle descrizioni e nei dettagli di certi paesaggi mi accorgo di quanto la strada sia estremamente ripida e di difficile percorrenza per chi le leggerà. Spesso è la miscela del luogo con le emozioni personali a trasformare un albero in un totem e un tramonto in un quadro vivente mentre il racconto a posteriori spesso risulta stantio se non addirittura palloso. Comunque, proverò lo stesso a ripercorrere qualcuno di quei sentieri o qualche metro di quelle spiagge desolate e ancora vergini. Potevamo andare dove ci pareva, sia di giorno che di notte, addentrandoci nel bosco o costeggiando le chilometriche battigie anche se, praticamente, alcune tappe erano obbligatorie per la loro bellezza o semplicemente per esigenze personali. E le giornate erano così organizzate: la mattina, dopo aver fatto colazione, si partiva alla volta di qualche laghetto o promontorio da cui poter osservare la curvatura dell'oceano o i pesci (tartarughe, razze, squali) che, grazie alla trasparenza della sua pelle blu, si intravedevano sul fondale. Poi il pranzo, che era più che altro uno spuntino veloce (e qui si consumava la cucina nordica…) permetteva, nella mezz’ora successiva, di inoltrarsi nel bosco per tagliare un po’ di legna da conservare per il falò serale. Il pomeriggio era breve, preso con calma e alla ricerca di un posto in cui piantare le tende, accendere il fuoco in previsione di una cena migliore del pranzo (cucina italiana). Malgrado la compagnia un po’ troppo pacata, furono tre giorni in stand by, un’istantanea in cui l’occhio dell’obiettivo rimase aperto settantadue ore fisso su quell’isola morbida, umida. C’era anche un vascello, relitto sulla spiaggia arrugginito dei tempi del Titanic, una cozzaglia di spranghe di ferro ancora battute dalle onde del pacifico, a metà fra due mondi e due vite,[] a testimoniare l’efficacia dello scudo naturale australiano contro i primi (ma non solo) navigatori ed esploratori del vecchio continente.
Acqua salata–acqua dolce, dune di sabbia–foreste di eucalipto, una jeep bianca–un’isola deserta.[] Avevamo instaurato un certo rapporto d’amicizia solo con alcuni componenti del gruppo: le due olandesi, il tedesco solitario e uno dei tre bomboloni inglesi. Erano più disponibili, stavano allo scherzo e non si preoccupavano di dove, quando, come mangiare o dormire. Gli altri erano, a volte, insopportabili, programmavano tutto e tutto doveva procedere come loro avevano programmato. A casa anch’io sono così, a dire il vero anche in viaggio sono così, mi faccio delle mete preconcette, dei traguardi da raggiungere, fisso dei paletti nel futuro ma non è altro che un vedere oltre, sapere che, se non c’è alternativa, io ho comunque qualcosa da fare, da pensare per non stare sospeso ad aspettare che la situazione cambi. Fortunatamente, però, di sera gli animi si rilassavano e una volta montate le tende in cerchio, si collaborava per accendere il fuoco o per cucinare. Il cibo e la fame, dopo una lunga giornata sotto un sole strepitoso, accendono la voglia di stare assieme con calma, condividere la stanchezza godendo del soffio fresco del vento sulla schiena, fra i capelli. Guardarsi a vicenda sapendo che io non so e non saprò mai niente di te ma non importa, sorseggiare un bicchiere di vino nell’attesa che arrivi un piatto di pasta, scambiare opinioni a ruota libera e godere di un altro nuovo tramonto. La prima sera, però, non ci fu nessuna pasta (posticipata al giorno successivo); carta verde alla sbobba anglo-tedesca con fiumi di Rum (direttamente da Bundaberg) come digestivi. Quella notte sostammo in una baia, affogata fra due promontori e ombreggiata da piccoli alberelli. Non eravamo i soli ad avere scelto quel luogo per campeggiare anzi, eravamo gli ultimi di una lunga tribù. Quella era, infatti, una delle tappe obbligate in cui si radunarono tutte le jeep che, come noi, visitavano l’isola in quei giorni. L’alcool e il fumo, ad un certo momento, presero il sopravvento sulla serata e fu, neanche a dirlo, delirio. Ubriaco fradicio giravo per la baia alla scoperta di gente nuova mentre Mario (ubriaco anche lui) ci provava spudoratamente con la più piccola delle due olandesi rotolandola nella cenere lasciata dal falò spento. Giovi non lo so, non ricordo. Giravo come un imbecille guardando chi suonava la chitarra, chi continuava a bere, chi si baciava dietro un furgone, chi…; poi rividi la ragazza olandese del mio gruppo seduta a fumare con altri in un accampamento poco distante e mi unii a loro. Cervello spento dopo due tiri. Forse ci alzammo subito, diretti verso le nostre tende, ci sdraiammo fuori ridendo della sua amica e di Mario ancora stesi sulle ceneri spente, se guardavamo le stelle in silenzio sboccavamo. Forse pensavo di darle un bacio o, se avesse voluto, anche due, ma stavo già sognando, non era lei il perché, era la voglia di trasmettere fisicamente le mie sensazioni di quell’avventura in un contatto nudo, caldo. L’alcool, per certi versi, è un’ottima vaselina per il cervello, tutto scivola da dentro a fuori senza ma, se, però; fino alla fine dell’effetto o alla sua saturazione immediata. Non la sfiorai neanche (chi era?), non capivo più niente e lei non c’era già più, sparita nella tenda con l’amica. Io non feci neanche in tempo ad appoggiare la testa sul cuscino che iniziò subito a girarmi attorno il mondo intero. La nausea della sbornia è come un demone che picchia con una mazzetta d’acciaio contro le pareti del cranio, le vene non scoppiano per miracolo e l’acido che brucia sul fondo della gola ha un sapore di vendetta, la giustizia delle budella sulla tua sete di drago ubriaco. Penso di essere stato in ginocchio a pregare la Madonna che non mi facesse esplodere la testa per almeno un’ora di fila. Ci parlai anche con la Madonna e le chiesi se era quella la giusta punizione per avere pensato solo un momento di baciare quell’olandese, e il suo silenzio fu per me un ironico si. Se per cinque minuti non vomitavo, dovevo girarmi al volo per cagare; vomito e merda, vomito e merda nel silenzio di quell’isola aspettando di potermi calmare e dormire almeno un po’. Fra un conato e l’altro maledicevo il vino, il rum, il fumo, la birra e non vedevo l’ora di addormentarmi. Mi accorsi che, finalmente, ci ero riuscito quando fui svegliato da un prurito sempre più forte che sentivo sulle dita del piede destro. Non capivo bene cosa potesse essere, ero ancora stordito, avevo dormito pochissimo e male, all’aperto, in mezzo al vomito e non avevo neanche voglia di voltarmi per vedere chi era che, all’alba, mi importunasse così insistentemente. Ad un certo punto, però, il prurito si intensificò tanto da diventare quasi un dolore così che dovetti ritrarre la gamba e vedere che un dingo, sopra di me, aveva cominciato a stuzzicare il proprio palato con il mio piede. Sapevo che fossero animali ancora allo stato brado, non abituati alla presenza dell’uomo ma fino a quel punto no. Io ero, praticamente, un suo potenziale pranzo e se non fosse stato per il giorno, le tende a poco lontane e il suo essere solo senza il resto del branco, non so come sarebbe andata a finire. Il mal di testa… la sbornia… NON ESISTEVA PIU’ NIENTE, TUTTO PASSATO; mi alzai piano e tranquillamente entrai in tenda lasciandolo fuori fra gli avanzi della cena.
Ormai ero sveglio e anche se era l’alba non sarei più riuscito a dormire; avevo lo stomaco sottosopra e ripensavo continuamente al brusco risveglio sulla sabbia. Di fianco, Giovanni e Mario dormivano ancora ma per poco. Il sole iniziava già a picchiare e scaldare il telo della nostra tenda, eravamo in tre, appiccicati l’uno contro l’altro e sudici dalla testa ai piedi. Decisi di uscire e farmi una camminata nell’attesa che anche gli altri si svegliassero, così mi incamminai verso la battigia, una lavata generale e veloce mi rimise subito al mondo; ne avevo bisogno, ne aveva bisogno la pelle, la faccia, i nervi e i piedi. Lo stordimento della notte precedente non si sarebbe affievolito ma avevo bisogno più che altro di un senso di freschezza, aria frizzante e luce. Salii su un promontorio che torreggiava li vicino e da cui si poteva vedere un panorama solitario, diviso fra l’oceano da una parte e dune di sabbia dall’altra. Da quella posizione si vedeva anche l’accampamento, macchie bianche (le tende) semi-nascoste fra i rami degli alberi. [] Poi tornai giù, lasciando l’oceano alle spalle, verso i miei amici che si erano appena svegliati. Mario era tutto nero, cenere ovunque, anche nella bocca e tentava di spurgare gli acidi intestinali con un litro e mezzo di Coca Cola; aveva ravanato tutta la notte fra le cosce dell’olandesina che, però, non si era data come lui sperava e l’aveva lasciato (addormentato) fra i resti del falò. Giovanni, invece, era rimasto nei dintorni e, non appena l’altra olandese tornò in tenda, si catapultò dentro azzardando l’ultimo approccio possibile a quell’ora e in quelle condizioni. Lei si mise a urlare e sbraitare come una dannata (io ero già a sboccare poco lontano) finchè lui non uscì dalla sua tana. Forse furono proprio le sue grida da stronzetta ad aver mandato a puttane la serata di Mario che ci stava provando in tutti i modi con l’altra. Avevano fatto le smaniose tutto il giorno, poi, al momento di stringere, come due bambine… ma forse eravamo noi, che avevamo un po’ di fame, o volevamo semplicemente avere un contatto diverso, qualcun altro al nostro fianco, visto che era già quasi un mese che vivevamo l’esperienza australiana da soli. La giornata proseguì divinamente fra laghi e ruscelli paradisiaci alla ricerca di una zona appartata e ben riparata per poter trascorrere la sera. Avevamo già una buona scorta di legna e il cibo era in abbondanza, in più quella sarebbe stata la nostra cena, all’italiana, penne all’arrabbiata con sugo di pomodoro e olive nere, parmigiano. Trovammo un ottimo posticino proprio sulla spiaggia: un piccolo anfiteatro di alberi e cespugli sulla sabbia che si affacciava direttamente sull’oceano. La guida non consigliava di accamparsi in zone isolate a causa di una forte presenza di mosche e insetti ma soprattutto per la presenza dei Dingo (e io ne sapevo qualcosa) che, vivendo allo stato brado, non erano animali prevedibili e quindi pericolosi per le persone. Ad ogni modo le tende erano già state piantate e il posto riempiva il cuore e la mente di benessere. Non potevamo dare ascolto alla guida.
Il sole, quella palla arancione, rosa-rosso scendeva già dietro l’oceano, e l’oceano, in quel tramonto, era una tavola; le onde raggiungevano la battigia a fatica, quasi come stanche dopo un lungo e ininterrotto cammino da chissà dove. Le padelle e la legna erano pronte per essere usate e tutti gli arnesi da cucina anche. Solo in quel momento ci accorgemmo di avere dimenticato di comperare il sale. Tentammo con l’acqua del mare!!! E fu un successo ugualmente (grazie al palato di Giovanni). Quella seconda sera eravamo tutti più affiatati, avevamo già trascorso una notte assieme ed eravamo riusciti, in parte, a limare gli spigoli più vivi di ognuno di noi. La pasta fece poi il resto, ci godemmo quella nottata finché tutti andarono a dormire mentre noi tre restammo ancora un po’ fuori, a guardare il cielo basso, a finire il vino rosso, a parlare della settimana precedente in mezzo ai campi di cotone e ai serpenti per non troncare quel momento con un altro sonno. In mezzo ai discorsi e ai sorsi di vino ci accorgemmo che, veramente, non eravamo gli unici a godere della luce del cielo e del caldo del falò. Avevamo quattro occhi gialli che ci fissavano da poco lontano e che, nel giro di cinque minuti, sarebbero arrivati fino a noi, divisi dai carboni del fuoco. Erano due Dingo affamati e attratti dagli avanzi della cena. Ci fissammo per minuti, come in uno stupido duello western, come chi si vede per la prima volta, con il fuoco riflesso sugli occhi e lo sgomento nel corpo. Noi non sapevamo come loro si sarebbero comportati, loro idem. Ma il loro era uno sguardo fisso, molto più convinto, molto più affamato del nostro, che avevamo anche lasciato gli avanzi. C’era una bellissima opportunità da sfruttare per non compromettere la nostra situazione: il falò. Riuscimmo infatti a raggiungere la jeep grazie a quell’ostacolo ancestrale fra uomo e animale e da dietro i finestrini rimanemmo a guardarli mentre ripulivano tutte le padelle della cena; cazzo, neanche se avessimo usato Mastro Lindo avremmo ottenuto lo stesso risultato, unbelievable!!!
E poi…
Alba, l’alba di Fraser Island dal telaio grotta del 4x4, luce pallida e fresca, sfumature di caldo e vento rosa, preludio di una giornata incandescente; niente sbornia e risveglio soffice a braccetto con i ritmi naturali, ripensando all’incontro ravvicinato della notte trascorsa. Ci svegliammo, uscendo dal nostro rifugio improvvisato, per vedere cosa era successo, come avevano ripulito alla perfezione i nostri piatti e osservando in lontananza la marea crescere e cancellare le impronte delle loro zampe.
Neanche dieci minuti ed eravamo tutti svegli: noi, i nostri compagni di viaggio (che non credevano alla nostra avventura notturna) e i Dingo, che tornarono sulla spiaggia con i cuccioli, quasi come a chiedere qualche morso ancora, la colazione magari. E sotto quel sole spremuto da qualche ieri un po’ troppo caldo restammo in silenzio di fronte ad una scena da film. Ciao.
Smontate le tende bruciammo gli ultimi litri di benzina per arrivare fino al traghetto che ci avrebbe riaccompagnato fuori dal sogno, immediatamente sulla strada, da dove eravamo venuti, dove saremo tornati per spostarci ancora più a nord, senza 4x4 ma di nuovo con il culo sui sedili della Snoopy Mobile che ci aveva atteso fedele (e nel frattempo aveva avuto modo di riposare) nel campo base. Pronti ad andare verso nord, quindi, pronti ma soprattutto carichi, disposti a condividere tutto solamente fra noi, solamente noi tre, senza intermediari, senza una donna, per altre migliaia di chilometri, quanti? Bò! Quanti??? Bò!!!
Saremmo partiti subito, volevamo partire subito tranne quel patacca di Mario che si era perdutamente innamorato (!) di quella olandese e desiderava restare QUALCHE ALTRO GIORNO!! lì per stare ancora un po’ con lei. Era completamente impazzito; lei non gliela avrebbe mai data, MAIII… ma lui (o perlomeno quello che gli stava tra le gambe) ci credeva di brutto. Non so come ma riuscimmo a convincerlo e a metterlo di fronte alla realtà dei fatti che non sarebbe servito a un cazzo, nelle condizioni in cui eravamo, starsene una mezza giornata in più aspettando di vedere la sua Madonna.
La salutò, come vuole la migliore tradizione cinematografica romantica degli ultimi novant’anni, alla stazione del treno, con le valigie (di lei) in mano e lo sguardo languido di un sedicenne che aspetta, lingua a penzoloni, un ultimo bacio. Poi il treno parte e Mario gira l’ennesima sigaretta, bruciando, fra un tiro e l’altro, tutta la bava bestiale che montava nelle sue vene.

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