“The Wall”. Le grandi vegetazioni lasciavano spazio ad
erbacce secche e cespugli spinosi, alberi bruciati sparsi qua e là a dire
che, se ogni tanto piovesse, forse ci potrebbe essere un po’ più di vita
anche da quelle parti. Stavo rivivendo il tragitto contrario rispetto a
quello fatto sull’aereo, a destra e a sinistra i monti e le colline si
affacciavano su desolate pianure dove, saltuariamente, branchi di vacche o
pecore brucavano o scorrazzavano per strada, a volte impedendo il passaggio.
E la strada era sempre più diritta e calda mentre la radio, guarda caso,
trasmetteva i Pink Floyd che gridavano la loro ribellione contro il sistema
a noi che, in quel momento preciso, eravamo forse gli unici ad essere fuori
dal sistema. Solo Noi e l’auto che lentamente assumeva sempre più un ruolo
di amica e compagna di viaggio, come un cavallo o un asino per migliaia di
chilometri senza perdere un colpo. Non ho idea per quanto tempo viaggiammo o
se, ad un certo punto, decidemmo di comune accordo la meta, ma arrivò il
momento di fermarsi in un posto chiamato Warren. Una cittadina sperduta nel
bush la cui esistenza è dovuta alla presenza di sconfinati campi di cotone
tutto attorno per chilometri e chilometri. È un po’ come le vecchie città
dell’oro di fine ottocento, diventate vere e proprie metropoli nei primi
anni e poi sgonfiatesi nel giro di un lustro in città fantasma. Warren non
era proprio una città fantasma ma esisteva esclusivamente per il cotone. Era
distribuita lungo il fiume Macquaire, teatro, un tempo, di sanguinolente
guerriglie fra le popolazioni aborigene e i coloni bianchi; e
fondamentalmente aveva tutto ciò che serve ad un agglomerato di case per non
dover dipendere per forza da altri ovvero (in ordine di importanza) un Pub,
una chiesa, un Bottle shop, un market, una farmacia, una piscina, una
biblioteca. La prima cosa che chiedemmo fu un luogo in cui dormire perché
eravamo veramente distrutti, la seconda se c’era la possibilità di lavorare.
Le risposte furono entrambe affermative. C’era in effetti un campeggio
all’inizio di Warren, se si poteva definire campeggio non lo so, comunque;
era uno spiazzo bruciato dal sole con pochi alberelli senza più foglie che
avrebbero dovuto fare ombra alle tende. Sparse qua e là, come cadaveri di
metallo dallo sfascia carrozze, erano parcheggiate roulotte in disuso che
venivano utilizzate come bungalows per i villeggianti. Chiariamo una cosa:
non credo che Warren abbia mai avuto e mai avrà un valido motivo per essere
considerata una meta turistica; tutti i ragazzi che si trovavano come noi
lì, ci stavano solo per lavorare e così il campeggio in cui noi risiedevamo
esisteva solo grazie a queste persone.
Il mondo si riserva degli spazi assurdi che un uomo, standosene comodamente
a casa davanti alla tv a guardarsi bellissimi film o affascinanti
documentari, nemmeno si immagina. Io iniziai a detestare quel posto da
subito, non tanto perché fosse quasi dimenticato dal resto del pianeta o
perché la temperatura media fosse di quarantacinque gradi, ma per la
mentalità della gente che vi abitava, piegata sul lavoro e piena di se
stessa, senza un minimo di apertura nei confronti dello straniero, facce di
cera e cervello di legno. Oggi guardo gli immigrati africani e ritrovo nei
discorsi della mia gente la stessa puzza che usciva dagli occhi di quei
contadini di cotone. Insomma…
Appena arrivati al campeggio piantammo la tenda sotto un filo di ramo nella
speranza di poter godere di qualche ora d’ombra al giorno. Ma stavamo
sognando ad occhi aperti e non ce ne rendevamo conto: il sole sembrava
volesse restare lì, inchiodato come un Cristo in mezzo al blu del cielo fino
a che non calava la notte. Subito ci mettemmo alla ricerca di un lavoro, di
qualcuno che ci potesse dire a chi rivolgerci, e non fu certo cosa ardua
visto l’esiguo numero della popolazione, tutta quanta impegnata nello stesso
mestiere. Parlammo così con la proprietaria di uno dei più grandi
appezzamenti di terreno adibiti alla coltivazione di cotone di tutto il
N.S.W.. Nemmeno cinque minuti ed eravamo già assunti per il giorno
successivo a tempo indeterminato. I nostri progetti erano quelli di lavorare
almeno due settimane anche se non avevamo ancora fatto i conti con la dura
realtà delle cose. Sapevamo solo (e questo doveva già essere un campanello
d’allarme) che la sveglia mattutina sarebbe suonata alle quattro e trenta
del mattino. Mio Dio no, le quattro e mezza. Uno non ci pensa, fa la faccia
storta ma in fondo ci può stare, dai, cosa vuoi che sia, le quattro e mezza,
dopo un’ora fa giorno, non è poi un grande sforzo. Poi però arriva il
momento di alzarsi sul serio e non da gusto per niente. Nel giro di dieci
minuti, più o meno, si svegliava tutto il campeggio. L’aria a quell’ora era
frizzante, faceva quasi freddo, ognuno radunava il necessario per affrontare
la giornata al meglio poiché il rientro a casa era previsto per il primo
pomeriggio fra le quindici e le sedici. Tutti quelli che non avevano mezzi
con cui raggiungere i campi si incontravano all’alba di fronte all’unico bar
aperto, per fare colazione e quindi partire. Un’ora di viaggio in un
furgoncino scassato, tutti ammucchiati e assonnati fra scarpe sudicie, zappe
e pale; contenitori d’acqua. Noi li seguivamo a ruota fra la polvere delle
stradine che tagliavano in due ettari di campi coltivati a piante di cotone,
colture sterminate irrigate alla perfezione in un’area che non vedeva una
goccia di pioggia da settimane. Con noi viaggiavano altri due ragazzi
conosciuti in campeggio che facevano quel lavoro già da un mese e che, per
vie traverse, Giovi conosceva pure. Incredibile.
Incredibile non tanto che Giovi li conoscesse, ma che loro avevano già
trascorso un mese in quel buco nel nulla dell’outback nell’attesa di
accumulare la giusta somma di denaro per pagarsi il biglietto del pullman
che li avrebbe traghettati verso Sydney o Melbourne. E il bello è che non
riuscivano nemmeno a mettere da parte un dollaro. Dormivano in una di quelle
roulotte di lamiera che, all’interno, sprigionavano un calore insopportabile
sia di giorno che di notte e non vedevano l’ora di poter levare le tende… ma
uno spendeva tutto lo stipendio settimanale in quelle macchinette ciuccia
soldi del pub mentre l’altro, che non sopportava lo stupido comportamento
dell’amico, investiva i suoi guadagni in Marijuana durante le noiose ore in
attesa del ritorno dell’amico dal pub. Sembravano Stanlio e Onlio, ognuno
biasimava le brutte abitudini dell’altro e mentre il tempo passava, loro
pensavano continuamente al tempo perso in mezzo ai campi di cotone.
Primo giorno di lavoro.
Dopo un’ora di strada polverosa raggiungemmo all’alba il luogo di lavoro
anche se, a dire il vero, tutto il tragitto dalla città a lì poteva essere
un luogo di lavoro visto che eravamo completamente circondati a perdita
d’occhio da campi di cotone: distese infinite di piante color verde intenso
perfettamente allineate per km e km senza la presenza di un albero o un
accenno di collina o monte. Il nostro compito era quello di zappare ed
estirpare tutte le erbacce che avrebbero potuto danneggiare la pianta
durante il suo sviluppo affinché potesse dare il miglior risultato possibile
al termine della stagione. Teoricamente la nostra mansione consisteva in
questo: camminare con la zappa nelle mani (era vietato appoggiarla sulla
spalla…) lungo una serie di filari individuando le sterpaglie che andavano
eliminate. Praticamente, però, accadeva questo: dovevamo camminare con la
zappa nelle mani lungo una serie di filari individuando le sterpaglie che
andavano eliminate dalle sei del mattino alle tre di pomeriggio, con
mezz’ora di pausa per mettere sotto i denti una mela e un panino, a
quarantacinque gradi, senza fare parola con nessuno dei nostri colleghi (che
camminavano al nostro fianco per ore ed ore) onde evitare pericolose
distrazioni sul lavoro e inconsapevoli del fatto che si camminava in un
territorio popolato da uno fra i serpenti più velenosi al mondo: il brown (o
black) snake. A me sembrava di dover zappare un gigantesco disco in vinile
verde, piatto e perfettamente geometrico, a tratti demoniaco. In cielo non
si vedeva mai una nuvola, mai un uccello, mai un aereo. Il cielo era una
macchia azzurra, sempre, con quel fuoco fisso che trapanava le nostre teste
dalle prime ore del giorno in poi.[] Lì, eravamo gli extracomunitari del
gruppo, non potevamo parlare fra noi, non potevamo permetterci di
dimenticare un’erbaccia, dovevamo lavorare di continuo, come negri! E’
facile intuire che l’esperienza del cotton chipping non durò a lungo. Al
ritorno in campeggio eravamo distrutti, neanche la forza per farsi una
doccia o pensare di fare la spesa per cenare; e anche il campeggio, in
fondo, non aiutava a tirare su il morale. Il bello era che non si trattava
nemmeno di una questione di abitudine perché anche gli altri ragazzi, che
magari erano lì da settimane, erano piegati in due tanto quanto noi.
Quella sera conoscemmo Ernesto, un ragazzo brasiliano un po’ lontano dalla
fisionomia tipica del suo paese. Era biondo e riccio, aveva un bel pizzo
lungo e arruffato che faceva da cornice ad un viso magro e abbronzato su cui
erano incastonati due occhi azzurri come il cielo di Warren.
Ernesto non lavorava con noi ma per un’altra azienda e ogni tanto si dava
per malato per recuperare un po’ di energie e stare in relax. Anche lui era
arrivato fin lì per tirare su il suo gruzzolo e volare via in India o in
Thailandia. Lui riuscì a fuggire da quel forno pochi giorni dopo mentre gli
altri due sarebbero rimasti là chissà per quanto tempo ancora a
rimproverarsi a vicenda per dieci grammi di fumo di troppo o un jackpot
mancato per un soffio. Noi non durammo tanto, soltanto quattro giorni e
l’ultimo fu interminabile. Mentre eravamo nel bel mezzo di un campo che non
si era sviluppato come gli altri, (alcune zone erano completamente aride
mentre altre troppo rigogliose) una donna iniziò a gridare come una sguaiata
e a correre impazzita verso il furgone: “SNAKE S N A K E !!!”
Non ci potevo credere. Eravamo in mezzo ad un campo di arbusti in
pantaloncini e scarpe da ginnastica (c’era chi lavorava scalzo!) e qualcuno
aveva appena visto strisciare un serpente davanti a sé. Poco dopo un altro
grido da un’altra direzione: “ANOTHER ONE, THERE!”. In una decina di secondi
saremmo saltati tutti fuori dal campo ma ogni passo era una scommessa contro
il serpente perché, dalle ginocchia in giù, non si riusciva a vedere
assolutamente niente e questo non tranquillizzava affatto. Non appena fummo
tutti al sicuro, i più anziani ed esperti del gruppo, ovvero i datori di
lavoro, si rituffarono fra le piante con le zappe alla ricerca dei due
rettili avvistati che, guarda caso, erano proprio un brown e un black snake.
La caccia non durò a lungo ma non diede neanche i risultati sperati;
solamente uno venne ucciso con un colpo di zappa che gli troncò la testa dal
resto del corpo. Continuava a divincolarsi ed attorcigliarsi come una medusa
attorno all’avambraccio del contadino mentre questi, con noncuranza, ci
mostrava la testa, i denti e il veleno di questo animale che, a suo dire,
poteva uccidere una persona nel giro di una mezz’ora al massimo. E noi
eravamo a un’ora dal centro abitato più vicino e nel furgone non c’era
nemmeno l’antidoto. Nemmeno il tempo di riflettere sul da farsi, sapendo che
fra quelle piante vagava l’altro esemplare, che già tutto il gruppo di
veterani si era piombato di nuovo in postazione e aveva ripreso a zappare
dallo stesso punto in cui si era smesso. La differenza era tutta lì. Noi
venivamo da Pesaro, a venti km da Rimini. Il più grande pericolo che un
ragazzo può correre vivendo sulla costa adriatica è di uscire dalla
discoteca un venerdì o sabato sera e, sulla statale, ritrovarsi all’uscita
di una curva uno dei soliti idioti addormentati alla guida di una macchina
che ti piomba addosso e, se hai avuto culo, ti lascia l’onore di poterla
raccontare. A Warren, o comunque più in generale in tutta l’Australia, il
pericolo si manifesta sotto altre forme e si può chiamare Brown Snake, o
Squalo bianco, o ragno velenoso, o… Insomma, noi non smettiamo di guidare se
vediamo un brutto incidente, loro non smettono di lavorare sebbene sia stato
avvistato un serpente proprio dove loro stanno lavorando, scalzi. A quel
punto avremmo anche potuto rifiutare di continuare a lavorare ma, non so per
quale strano meccanismo celebrale, afferrammo di nuovo le zappe e
continuammo a zappare. Non per molto però, perché comunque la doccia era
stata fin troppo fredda e i commenti sotto il sole si sprecavano. Ricordo
che mi avevano già allontanato dai compagni italiani così da evitare che io
potessi conversare con qualcuno e rallentare quindi il ritmo di lavoro. Al
contrario, Giovanni e Mario stavano ancora lavorando fianco a fianco e, un
po’ per ammazzare il tempo, un po’ per la fatica, discorrendo del più e del
meno ogni tanto dimenticavano di estirpare qualche stupida erbaccia. Gli
avevamo servito la scusa per licenziarci su un piatto d’argento e così fu.
Neanche un minuto di più e già il capo gli aveva sequestrato le zappe
facendo capire, in modo molto esplicito a tutti, che il loro contratto
terminava quel giorno stesso, a due ore dalla fine del turno. Mario tentò di
chiarire i fatti ma era come parlare ad un muro. Alla fine della giornata
decisi di lasciare perdere anch’io; prendemmo ciò che ci spettava per quei
quattro giorni di lavoro (trecentosessanta dollari a testa) e lasciammo
Warren al suo cotone e ai suoi cinquanta gradi.
I campi ci avevano lasciato certamente molto tempo per pensare e fare
ipotesi su dove avremmo potuto andare una volta volati via. Ma il problema
principale stava forse proprio nel volare via o, comunque, andarsene con una
certa rapidità e tranquillità e queste due prerogative, al momento, il
nostro bolide rosso non poteva proprio garantircele. Avevamo fatto tutti
quei chilometri con la sospensione rotta e non era il caso di continuare a
rischiare sapendo che la strada era ancora molto lunga davanti a noi anche
se ancora dovevamo decidere se tornare verso la costa o tuffarci nel caldo
deserto australiano. Dopo tanto discutere e valutare i pro e i contro,
decidemmo di riprendere la strada verso la Gold Coast per due motivi: il
primo era che, in quel modo, potevamo testare realmente le condizioni
meccaniche della macchina in un ambiente leggermente più temperato
dell’altro e con una percentuale di città e paesi sul tragitto molto più
elevata (così che, in caso di guasti, avremmo trovato certamente qualcuno
che ci potesse aiutare); il secondo riguardava più che altro Mario, che
iniziava ad avere già tanta nostalgia di quel piccolo villaggio disperso
nelle campagne di Byron Bay e voleva assolutamente tornarci per mezza
giornata almeno. Riparata la sospensione (che ci costò un occhio della testa
ed era addirittura usata) e tirata a lucido lo station Wagon rosso, partimmo
nel primo pomeriggio con una carica addosso inverosimile. Avevamo conosciuto
Mario ad una stazione del bus di Bondy Beach nemmeno un mese prima e ci
ritrovavamo ora noi tre, soli, dopo un piccolo stop over a Byron Bay ed
un’esperienza allucinante di lavoro da schiavi, diretti verso nessun
obiettivo specifico; solo noi e la strada, solo la strada e la Snoopy
Mobile.
Ah già, questa bisogna spiegarla.
Una notte bevevamo grandi tazze di Nescafè fumando e scrutando un cielo al
limite della realtà immaginabile. Più avanti avremmo vissuto la stessa
esperienza ma quella volta lo stupore fu grande, almeno per me, tanto che
ancora il ricordo è vivo e chiaro da qualche parte nella mia testa. Sembrava
di avere il cielo ad un soffio dai nostri nasi, nero e schizzato in ogni
dove di miliardi di stelle che si sovrapponevano fra loro, e la cosa
stupefacente era che quella polvere di stelle che attraversava e spruzzava
tutto quello che era sopra di noi non era altro che la via Lattea che
sprigionava una luce magica, di platino. Il cielo era basso, era
paurosamente basso e la croce del Sud era l’elemento primo di tutto quel
film infinito. Parlavamo, un sorso di caffè, un’occhiata al cielo per
agguantare qualche stella cadente, un tiro alla sigaretta, un sorso di
caffè. Io avevo conservato un pupazzetto, uno di quei giochini che trovi
negli ovetti Kinder, comperato chissà quando e chissà dove e rimasto a
riposare nel fondo del marsupio tutto quel tempo. Il pupazzetto era Snoopy,
in tenuta da sciatore in discesa libera e venne incollato sul cofano rosso
del Mitsubishi. Quella macchina, così agghindata, era una favola e Snoopy
sostituiva degnamente qualsiasi altro stemma (altro che angeli e Rolls Royce)
del genere.
Sgusciammo via da Warren con l’ammortizzatore nuovo e duecentocinquanta
dollari in meno nelle tasche, nuovamente verso la costa pacifica, direzione
nord, barriera corallina.
Sguardo fisso sulla highway per macinare il maggior numero di chilometri
possibili, ripensando un po’ a tutto, sempre con il sole in faccia fino a
sera…
E la strada ci condusse fra gli sguardi di una curiosa città sperduta fra
altre cento nella campagna dello stato del Queensland: Roma. La popolazione
era costituita al novanta per cento da immigrati italiani, o meglio
siciliani che nel dopo guerra, invece di imbarcarsi come troppi alla volta
della Grande Mela, avevano deciso di prendere la rotta opposta, agli
antipodi della loro realtà. E a Roma tutta la popolazione anziana parlava
due lingue incomprensibili: l’italo-australiano e il siciliano di cinquant’anni
fa. E come la lingua anche il loro ricordo e la loro considerazione
dell’Italia erano rimasti congelati a quel periodo storico. Alcuni erano
tornati indietro, erano tornati per salutare i parenti, per assistere ad un
matrimonio di qualche nipote o al funerale di un amico ma erano rimasti
delusi (come dicevano loro) dalla confusione della vita, dalla povertà dei
valori e da altre mille cose che solo loro avevano ben chiare. Noi potevamo
solo ascoltare cercando di capire, finché possibile, il perché di tanta
amarezza; forse era solo una questione di pelle, qualcosa che aveva a che
fare con i sogni e i progetti di una vita, non so bene. Sicuramente il gap
temporale e spaziale era immenso e allora anche tutta questa amarezza che
sfociava dalle loro bocche era, in un certo senso, comprensibile.
Era già sera e decidemmo di passare la notte in una pensione del centro,
forse l’unica nei dintorni. Il fatto è che avevamo speso del tempo
conversando con i vecchi del posto, poi ci eravamo fiondati nel pub
sottostante alla pensione, avevamo cenato con una buona dose di birre e
qualche hamburger mentre il giorno finiva. Così non avevamo tanta voglia di
rimetterci in auto e macinare nuovamente centinaia di km. Ma la pensione, a
parte il pub e la reception, assomigliava moltissimo ad un manicomio oppure
ad un ospizio a partire dalle scale che conducevano alle camere da letto.
Pareti spoglie, nude e fradice d’umidità, e nessun tipo di arredamento lungo
i corridoi, sulla rampa di scale o nelle stanze. Ogni piccolo suono
rimbalzava distorto da un angolo all’altro dell’edificio, amplificato fino
ad assumere un’identità completamente differente ed estranea rispetto
all’originale. Le mura erano verdi e bianche, un verde acqua che nel tempo
era diventato color muffa, anzi era muffa, mentre il bianco era diventato
quasi inconsapevolmente giallastro, come se un gigante avesse pisciato
contro le mura di tutto il palazzo per anni. Sembrava un edificio disabitato
e invece ancora oggi credo che fosse pieno di gente, invisibile; di notte si
sentiva tossire, si sentiva urlare, piangere, sputare per terra, ed
altrettanti suoni strani ed indefiniti. La mia camera era una fra le tante
del corridoio e filtrava, attraverso le sottili pareti, alcuni di questi
particolari ‘suoni’ che poi rividi la mattina seguente. Era un signore sulla
cinquantina (o almeno credo), con una pancia di lardo e gambe esili e
bianchicce. Aveva russato e rimasticato catarro tutta la notte e ancora
all’alba era nella doccia del bagno comune che finiva di scaricarsi fra uno
sputo e una scoreggia mentre io mi facevo la barba nel lavello. Sullo
specchio, rotto in vari punti e sbiadito dal tempo, stava un geco immobile
nell’attesa che finissi il mio lavoro e potesse riprendere a muoversi
indisturbato.
In lontananza si sentivano stridere i cuscinetti delle ruote della sedia a
rotelle di un uomo più anziano del primo, che abitava nell’ultima porta del
lungo corridoio.
Dopo aver fatto il check-out per quella sola notte, ci rimettemmo in viaggio
lasciando Roma ai suoi ritmi stagnanti. |