CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

4. BLUES MEN & SNOOPY MOBILE

“The Wall”. Le grandi vegetazioni lasciavano spazio ad erbacce secche e cespugli spinosi, alberi bruciati sparsi qua e là a dire che, se ogni tanto piovesse, forse ci potrebbe essere un po’ più di vita anche da quelle parti. Stavo rivivendo il tragitto contrario rispetto a quello fatto sull’aereo, a destra e a sinistra i monti e le colline si affacciavano su desolate pianure dove, saltuariamente, branchi di vacche o pecore brucavano o scorrazzavano per strada, a volte impedendo il passaggio. E la strada era sempre più diritta e calda mentre la radio, guarda caso, trasmetteva i Pink Floyd che gridavano la loro ribellione contro il sistema a noi che, in quel momento preciso, eravamo forse gli unici ad essere fuori dal sistema. Solo Noi e l’auto che lentamente assumeva sempre più un ruolo di amica e compagna di viaggio, come un cavallo o un asino per migliaia di chilometri senza perdere un colpo. Non ho idea per quanto tempo viaggiammo o se, ad un certo punto, decidemmo di comune accordo la meta, ma arrivò il momento di fermarsi in un posto chiamato Warren. Una cittadina sperduta nel bush la cui esistenza è dovuta alla presenza di sconfinati campi di cotone tutto attorno per chilometri e chilometri. È un po’ come le vecchie città dell’oro di fine ottocento, diventate vere e proprie metropoli nei primi anni e poi sgonfiatesi nel giro di un lustro in città fantasma. Warren non era proprio una città fantasma ma esisteva esclusivamente per il cotone. Era distribuita lungo il fiume Macquaire, teatro, un tempo, di sanguinolente guerriglie fra le popolazioni aborigene e i coloni bianchi; e fondamentalmente aveva tutto ciò che serve ad un agglomerato di case per non dover dipendere per forza da altri ovvero (in ordine di importanza) un Pub, una chiesa, un Bottle shop, un market, una farmacia, una piscina, una biblioteca. La prima cosa che chiedemmo fu un luogo in cui dormire perché eravamo veramente distrutti, la seconda se c’era la possibilità di lavorare. Le risposte furono entrambe affermative. C’era in effetti un campeggio all’inizio di Warren, se si poteva definire campeggio non lo so, comunque; era uno spiazzo bruciato dal sole con pochi alberelli senza più foglie che avrebbero dovuto fare ombra alle tende. Sparse qua e là, come cadaveri di metallo dallo sfascia carrozze, erano parcheggiate roulotte in disuso che venivano utilizzate come bungalows per i villeggianti. Chiariamo una cosa: non credo che Warren abbia mai avuto e mai avrà un valido motivo per essere considerata una meta turistica; tutti i ragazzi che si trovavano come noi lì, ci stavano solo per lavorare e così il campeggio in cui noi risiedevamo esisteva solo grazie a queste persone.
Il mondo si riserva degli spazi assurdi che un uomo, standosene comodamente a casa davanti alla tv a guardarsi bellissimi film o affascinanti documentari, nemmeno si immagina. Io iniziai a detestare quel posto da subito, non tanto perché fosse quasi dimenticato dal resto del pianeta o perché la temperatura media fosse di quarantacinque gradi, ma per la mentalità della gente che vi abitava, piegata sul lavoro e piena di se stessa, senza un minimo di apertura nei confronti dello straniero, facce di cera e cervello di legno. Oggi guardo gli immigrati africani e ritrovo nei discorsi della mia gente la stessa puzza che usciva dagli occhi di quei contadini di cotone. Insomma…
Appena arrivati al campeggio piantammo la tenda sotto un filo di ramo nella speranza di poter godere di qualche ora d’ombra al giorno. Ma stavamo sognando ad occhi aperti e non ce ne rendevamo conto: il sole sembrava volesse restare lì, inchiodato come un Cristo in mezzo al blu del cielo fino a che non calava la notte. Subito ci mettemmo alla ricerca di un lavoro, di qualcuno che ci potesse dire a chi rivolgerci, e non fu certo cosa ardua visto l’esiguo numero della popolazione, tutta quanta impegnata nello stesso mestiere. Parlammo così con la proprietaria di uno dei più grandi appezzamenti di terreno adibiti alla coltivazione di cotone di tutto il N.S.W.. Nemmeno cinque minuti ed eravamo già assunti per il giorno successivo a tempo indeterminato. I nostri progetti erano quelli di lavorare almeno due settimane anche se non avevamo ancora fatto i conti con la dura realtà delle cose. Sapevamo solo (e questo doveva già essere un campanello d’allarme) che la sveglia mattutina sarebbe suonata alle quattro e trenta del mattino. Mio Dio no, le quattro e mezza. Uno non ci pensa, fa la faccia storta ma in fondo ci può stare, dai, cosa vuoi che sia, le quattro e mezza, dopo un’ora fa giorno, non è poi un grande sforzo. Poi però arriva il momento di alzarsi sul serio e non da gusto per niente. Nel giro di dieci minuti, più o meno, si svegliava tutto il campeggio. L’aria a quell’ora era frizzante, faceva quasi freddo, ognuno radunava il necessario per affrontare la giornata al meglio poiché il rientro a casa era previsto per il primo pomeriggio fra le quindici e le sedici. Tutti quelli che non avevano mezzi con cui raggiungere i campi si incontravano all’alba di fronte all’unico bar aperto, per fare colazione e quindi partire. Un’ora di viaggio in un furgoncino scassato, tutti ammucchiati e assonnati fra scarpe sudicie, zappe e pale; contenitori d’acqua. Noi li seguivamo a ruota fra la polvere delle stradine che tagliavano in due ettari di campi coltivati a piante di cotone, colture sterminate irrigate alla perfezione in un’area che non vedeva una goccia di pioggia da settimane. Con noi viaggiavano altri due ragazzi conosciuti in campeggio che facevano quel lavoro già da un mese e che, per vie traverse, Giovi conosceva pure. Incredibile.
Incredibile non tanto che Giovi li conoscesse, ma che loro avevano già trascorso un mese in quel buco nel nulla dell’outback nell’attesa di accumulare la giusta somma di denaro per pagarsi il biglietto del pullman che li avrebbe traghettati verso Sydney o Melbourne. E il bello è che non riuscivano nemmeno a mettere da parte un dollaro. Dormivano in una di quelle roulotte di lamiera che, all’interno, sprigionavano un calore insopportabile sia di giorno che di notte e non vedevano l’ora di poter levare le tende… ma uno spendeva tutto lo stipendio settimanale in quelle macchinette ciuccia soldi del pub mentre l’altro, che non sopportava lo stupido comportamento dell’amico, investiva i suoi guadagni in Marijuana durante le noiose ore in attesa del ritorno dell’amico dal pub. Sembravano Stanlio e Onlio, ognuno biasimava le brutte abitudini dell’altro e mentre il tempo passava, loro pensavano continuamente al tempo perso in mezzo ai campi di cotone.
Primo giorno di lavoro.
Dopo un’ora di strada polverosa raggiungemmo all’alba il luogo di lavoro anche se, a dire il vero, tutto il tragitto dalla città a lì poteva essere un luogo di lavoro visto che eravamo completamente circondati a perdita d’occhio da campi di cotone: distese infinite di piante color verde intenso perfettamente allineate per km e km senza la presenza di un albero o un accenno di collina o monte. Il nostro compito era quello di zappare ed estirpare tutte le erbacce che avrebbero potuto danneggiare la pianta durante il suo sviluppo affinché potesse dare il miglior risultato possibile al termine della stagione. Teoricamente la nostra mansione consisteva in questo: camminare con la zappa nelle mani (era vietato appoggiarla sulla spalla…) lungo una serie di filari individuando le sterpaglie che andavano eliminate. Praticamente, però, accadeva questo: dovevamo camminare con la zappa nelle mani lungo una serie di filari individuando le sterpaglie che andavano eliminate dalle sei del mattino alle tre di pomeriggio, con mezz’ora di pausa per mettere sotto i denti una mela e un panino, a quarantacinque gradi, senza fare parola con nessuno dei nostri colleghi (che camminavano al nostro fianco per ore ed ore) onde evitare pericolose distrazioni sul lavoro e inconsapevoli del fatto che si camminava in un territorio popolato da uno fra i serpenti più velenosi al mondo: il brown (o black) snake. A me sembrava di dover zappare un gigantesco disco in vinile verde, piatto e perfettamente geometrico, a tratti demoniaco. In cielo non si vedeva mai una nuvola, mai un uccello, mai un aereo. Il cielo era una macchia azzurra, sempre, con quel fuoco fisso che trapanava le nostre teste dalle prime ore del giorno in poi.[] Lì, eravamo gli extracomunitari del gruppo, non potevamo parlare fra noi, non potevamo permetterci di dimenticare un’erbaccia, dovevamo lavorare di continuo, come negri! E’ facile intuire che l’esperienza del cotton chipping non durò a lungo. Al ritorno in campeggio eravamo distrutti, neanche la forza per farsi una doccia o pensare di fare la spesa per cenare; e anche il campeggio, in fondo, non aiutava a tirare su il morale. Il bello era che non si trattava nemmeno di una questione di abitudine perché anche gli altri ragazzi, che magari erano lì da settimane, erano piegati in due tanto quanto noi.
Quella sera conoscemmo Ernesto, un ragazzo brasiliano un po’ lontano dalla fisionomia tipica del suo paese. Era biondo e riccio, aveva un bel pizzo lungo e arruffato che faceva da cornice ad un viso magro e abbronzato su cui erano incastonati due occhi azzurri come il cielo di Warren.
Ernesto non lavorava con noi ma per un’altra azienda e ogni tanto si dava per malato per recuperare un po’ di energie e stare in relax. Anche lui era arrivato fin lì per tirare su il suo gruzzolo e volare via in India o in Thailandia. Lui riuscì a fuggire da quel forno pochi giorni dopo mentre gli altri due sarebbero rimasti là chissà per quanto tempo ancora a rimproverarsi a vicenda per dieci grammi di fumo di troppo o un jackpot mancato per un soffio. Noi non durammo tanto, soltanto quattro giorni e l’ultimo fu interminabile. Mentre eravamo nel bel mezzo di un campo che non si era sviluppato come gli altri, (alcune zone erano completamente aride mentre altre troppo rigogliose) una donna iniziò a gridare come una sguaiata e a correre impazzita verso il furgone: “SNAKE S N A K E !!!”
Non ci potevo credere. Eravamo in mezzo ad un campo di arbusti in pantaloncini e scarpe da ginnastica (c’era chi lavorava scalzo!) e qualcuno aveva appena visto strisciare un serpente davanti a sé. Poco dopo un altro grido da un’altra direzione: “ANOTHER ONE, THERE!”. In una decina di secondi saremmo saltati tutti fuori dal campo ma ogni passo era una scommessa contro il serpente perché, dalle ginocchia in giù, non si riusciva a vedere assolutamente niente e questo non tranquillizzava affatto. Non appena fummo tutti al sicuro, i più anziani ed esperti del gruppo, ovvero i datori di lavoro, si rituffarono fra le piante con le zappe alla ricerca dei due rettili avvistati che, guarda caso, erano proprio un brown e un black snake. La caccia non durò a lungo ma non diede neanche i risultati sperati; solamente uno venne ucciso con un colpo di zappa che gli troncò la testa dal resto del corpo. Continuava a divincolarsi ed attorcigliarsi come una medusa attorno all’avambraccio del contadino mentre questi, con noncuranza, ci mostrava la testa, i denti e il veleno di questo animale che, a suo dire, poteva uccidere una persona nel giro di una mezz’ora al massimo. E noi eravamo a un’ora dal centro abitato più vicino e nel furgone non c’era nemmeno l’antidoto. Nemmeno il tempo di riflettere sul da farsi, sapendo che fra quelle piante vagava l’altro esemplare, che già tutto il gruppo di veterani si era piombato di nuovo in postazione e aveva ripreso a zappare dallo stesso punto in cui si era smesso. La differenza era tutta lì. Noi venivamo da Pesaro, a venti km da Rimini. Il più grande pericolo che un ragazzo può correre vivendo sulla costa adriatica è di uscire dalla discoteca un venerdì o sabato sera e, sulla statale, ritrovarsi all’uscita di una curva uno dei soliti idioti addormentati alla guida di una macchina che ti piomba addosso e, se hai avuto culo, ti lascia l’onore di poterla raccontare. A Warren, o comunque più in generale in tutta l’Australia, il pericolo si manifesta sotto altre forme e si può chiamare Brown Snake, o Squalo bianco, o ragno velenoso, o… Insomma, noi non smettiamo di guidare se vediamo un brutto incidente, loro non smettono di lavorare sebbene sia stato avvistato un serpente proprio dove loro stanno lavorando, scalzi. A quel punto avremmo anche potuto rifiutare di continuare a lavorare ma, non so per quale strano meccanismo celebrale, afferrammo di nuovo le zappe e continuammo a zappare. Non per molto però, perché comunque la doccia era stata fin troppo fredda e i commenti sotto il sole si sprecavano. Ricordo che mi avevano già allontanato dai compagni italiani così da evitare che io potessi conversare con qualcuno e rallentare quindi il ritmo di lavoro. Al contrario, Giovanni e Mario stavano ancora lavorando fianco a fianco e, un po’ per ammazzare il tempo, un po’ per la fatica, discorrendo del più e del meno ogni tanto dimenticavano di estirpare qualche stupida erbaccia. Gli avevamo servito la scusa per licenziarci su un piatto d’argento e così fu. Neanche un minuto di più e già il capo gli aveva sequestrato le zappe facendo capire, in modo molto esplicito a tutti, che il loro contratto terminava quel giorno stesso, a due ore dalla fine del turno. Mario tentò di chiarire i fatti ma era come parlare ad un muro. Alla fine della giornata decisi di lasciare perdere anch’io; prendemmo ciò che ci spettava per quei quattro giorni di lavoro (trecentosessanta dollari a testa) e lasciammo Warren al suo cotone e ai suoi cinquanta gradi.
I campi ci avevano lasciato certamente molto tempo per pensare e fare ipotesi su dove avremmo potuto andare una volta volati via. Ma il problema principale stava forse proprio nel volare via o, comunque, andarsene con una certa rapidità e tranquillità e queste due prerogative, al momento, il nostro bolide rosso non poteva proprio garantircele. Avevamo fatto tutti quei chilometri con la sospensione rotta e non era il caso di continuare a rischiare sapendo che la strada era ancora molto lunga davanti a noi anche se ancora dovevamo decidere se tornare verso la costa o tuffarci nel caldo deserto australiano. Dopo tanto discutere e valutare i pro e i contro, decidemmo di riprendere la strada verso la Gold Coast per due motivi: il primo era che, in quel modo, potevamo testare realmente le condizioni meccaniche della macchina in un ambiente leggermente più temperato dell’altro e con una percentuale di città e paesi sul tragitto molto più elevata (così che, in caso di guasti, avremmo trovato certamente qualcuno che ci potesse aiutare); il secondo riguardava più che altro Mario, che iniziava ad avere già tanta nostalgia di quel piccolo villaggio disperso nelle campagne di Byron Bay e voleva assolutamente tornarci per mezza giornata almeno. Riparata la sospensione (che ci costò un occhio della testa ed era addirittura usata) e tirata a lucido lo station Wagon rosso, partimmo nel primo pomeriggio con una carica addosso inverosimile. Avevamo conosciuto Mario ad una stazione del bus di Bondy Beach nemmeno un mese prima e ci ritrovavamo ora noi tre, soli, dopo un piccolo stop over a Byron Bay ed un’esperienza allucinante di lavoro da schiavi, diretti verso nessun obiettivo specifico; solo noi e la strada, solo la strada e la Snoopy Mobile.
Ah già, questa bisogna spiegarla.
Una notte bevevamo grandi tazze di Nescafè fumando e scrutando un cielo al limite della realtà immaginabile. Più avanti avremmo vissuto la stessa esperienza ma quella volta lo stupore fu grande, almeno per me, tanto che ancora il ricordo è vivo e chiaro da qualche parte nella mia testa. Sembrava di avere il cielo ad un soffio dai nostri nasi, nero e schizzato in ogni dove di miliardi di stelle che si sovrapponevano fra loro, e la cosa stupefacente era che quella polvere di stelle che attraversava e spruzzava tutto quello che era sopra di noi non era altro che la via Lattea che sprigionava una luce magica, di platino. Il cielo era basso, era paurosamente basso e la croce del Sud era l’elemento primo di tutto quel film infinito. Parlavamo, un sorso di caffè, un’occhiata al cielo per agguantare qualche stella cadente, un tiro alla sigaretta, un sorso di caffè. Io avevo conservato un pupazzetto, uno di quei giochini che trovi negli ovetti Kinder, comperato chissà quando e chissà dove e rimasto a riposare nel fondo del marsupio tutto quel tempo. Il pupazzetto era Snoopy, in tenuta da sciatore in discesa libera e venne incollato sul cofano rosso del Mitsubishi. Quella macchina, così agghindata, era una favola e Snoopy sostituiva degnamente qualsiasi altro stemma (altro che angeli e Rolls Royce) del genere.
Sgusciammo via da Warren con l’ammortizzatore nuovo e duecentocinquanta dollari in meno nelle tasche, nuovamente verso la costa pacifica, direzione nord, barriera corallina.
Sguardo fisso sulla highway per macinare il maggior numero di chilometri possibili, ripensando un po’ a tutto, sempre con il sole in faccia fino a sera…
E la strada ci condusse fra gli sguardi di una curiosa città sperduta fra altre cento nella campagna dello stato del Queensland: Roma. La popolazione era costituita al novanta per cento da immigrati italiani, o meglio siciliani che nel dopo guerra, invece di imbarcarsi come troppi alla volta della Grande Mela, avevano deciso di prendere la rotta opposta, agli antipodi della loro realtà. E a Roma tutta la popolazione anziana parlava due lingue incomprensibili: l’italo-australiano e il siciliano di cinquant’anni fa. E come la lingua anche il loro ricordo e la loro considerazione dell’Italia erano rimasti congelati a quel periodo storico. Alcuni erano tornati indietro, erano tornati per salutare i parenti, per assistere ad un matrimonio di qualche nipote o al funerale di un amico ma erano rimasti delusi (come dicevano loro) dalla confusione della vita, dalla povertà dei valori e da altre mille cose che solo loro avevano ben chiare. Noi potevamo solo ascoltare cercando di capire, finché possibile, il perché di tanta amarezza; forse era solo una questione di pelle, qualcosa che aveva a che fare con i sogni e i progetti di una vita, non so bene. Sicuramente il gap temporale e spaziale era immenso e allora anche tutta questa amarezza che sfociava dalle loro bocche era, in un certo senso, comprensibile.
Era già sera e decidemmo di passare la notte in una pensione del centro, forse l’unica nei dintorni. Il fatto è che avevamo speso del tempo conversando con i vecchi del posto, poi ci eravamo fiondati nel pub sottostante alla pensione, avevamo cenato con una buona dose di birre e qualche hamburger mentre il giorno finiva. Così non avevamo tanta voglia di rimetterci in auto e macinare nuovamente centinaia di km. Ma la pensione, a parte il pub e la reception, assomigliava moltissimo ad un manicomio oppure ad un ospizio a partire dalle scale che conducevano alle camere da letto.
Pareti spoglie, nude e fradice d’umidità, e nessun tipo di arredamento lungo i corridoi, sulla rampa di scale o nelle stanze. Ogni piccolo suono rimbalzava distorto da un angolo all’altro dell’edificio, amplificato fino ad assumere un’identità completamente differente ed estranea rispetto all’originale. Le mura erano verdi e bianche, un verde acqua che nel tempo era diventato color muffa, anzi era muffa, mentre il bianco era diventato quasi inconsapevolmente giallastro, come se un gigante avesse pisciato contro le mura di tutto il palazzo per anni. Sembrava un edificio disabitato e invece ancora oggi credo che fosse pieno di gente, invisibile; di notte si sentiva tossire, si sentiva urlare, piangere, sputare per terra, ed altrettanti suoni strani ed indefiniti. La mia camera era una fra le tante del corridoio e filtrava, attraverso le sottili pareti, alcuni di questi particolari ‘suoni’ che poi rividi la mattina seguente. Era un signore sulla cinquantina (o almeno credo), con una pancia di lardo e gambe esili e bianchicce. Aveva russato e rimasticato catarro tutta la notte e ancora all’alba era nella doccia del bagno comune che finiva di scaricarsi fra uno sputo e una scoreggia mentre io mi facevo la barba nel lavello. Sullo specchio, rotto in vari punti e sbiadito dal tempo, stava un geco immobile nell’attesa che finissi il mio lavoro e potesse riprendere a muoversi indisturbato.
In lontananza si sentivano stridere i cuscinetti delle ruote della sedia a rotelle di un uomo più anziano del primo, che abitava nell’ultima porta del lungo corridoio.
Dopo aver fatto il check-out per quella sola notte, ci rimettemmo in viaggio lasciando Roma ai suoi ritmi stagnanti.

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