Ogni volta che salgo su un pullman è un’esperienza
straziante; non mi ci stanno le gambe, non riesco ad addormentarmi e in più,
come se non bastasse, l’aria condizionata è sempre regolata a temperature
polari: congelati dall’esterno in un tubo di lamiera rovente. E quando è ora
di scendere mi squaglio sistematicamente sull’asfalto senza capire più un
cazzo per tutta la giornata. Odio l’aria condizionata perché mi rende
debole, ci rende deboli, non siamo in grado di affrontare più nessun tipo di
variazione climatica, e poi ci mettiamo a fare le battaglie contro gli
acari…
Ma… mi sono perso; vorrei tornare a Byron Bay e al momento in cui arrivammo
all’ultima fermata di quella lunga lunga lunga lunga lunga…
C’era il sole ed era mattina, forse le sette o le otto, forse c’erano due
soli perché già a quell’ora faceva un caldo terribile (grazie all’aria
condizionata!!!) e già molta era la gente che si riversava lungo le vie
colorate di quella tranquilla cittadina.
E Byron Bay, in effetti, si sviluppava su due vie: il lungomare e la strada
principale, che dalla baia si dirigeva perpendicolarmente verso il centro
con i suoi bar e negozi. Poi era tutta una serie di traverse e viuzze che si
intrecciavano. Questa era Byron Bay, anche se non rende l’idea, anche se non
me ne frega, anche se non ho ancora detto che questo minuscolo centro era
perfettamente incastonato tra le foreste e la vegetazione della Gold Coast,
bagnata dalle onde dell’oceano pacifico e culla adottiva di una popolazione
freak di giovani e meno giovani. E a qualche km da lì, fra le colline e i
monti di una zona così suggestiva, sorgeva il tempio, oggi un po’ profanato
ma comunque senza tempo, di quella filosofia di vita, di fratellanza, di
ribellione e di isolamento dal mondo che corre (per piacere o per forza):
Nimbim. Io e Giovi sapevamo dell’esistenza di questo posto grazie ai
racconti del CAVALLARO che ce lo aveva descritto come fosse la Giamaica
dell’emisfero australe, addirittura con le piante di Marijuana più vecchie
del mondo; qualcosa come querce di canapa alte due o tre metri, campi
sterminati nascosti fra la vegetazione e che solo pochi ‘fortunati’ potevano
avere l’onore di visitare. Be’, naturalmente il CAVALLARO li aveva visti,
per forza, e anche se noi non ne eravamo molto convinti, non potevamo
neanche rifiutare completamente la sua versione dei fatti.
Ma eravamo a piedi, di nuovo con gli zaini in spalla (e posso assicurare che
non pesavano due etti) e ancora alla ricerca di un Ostello che potesse
ospitare non solo noi ma anche Mario e Michele che erano in dirittura
d’arrivo. E anche per questo problema, il CAVALLARO ci aveva consigliato un
BackPacker specifico, affogato nel verde di una foresta con tutte le
comodità degli altri che erano però affogati sull’asfalto delle due vie
principali.
La nostra residenza, per quella settimana, sarebbe stato l’Arts Factory, un
villaggio fiabesco… tutto in legno… e bamboo… con posti tenda… camere e
bungalow che si diramavano fino all’interno della foresta dove i ragazzi, di
notte o al mattino presto, si recavano alla ricerca di funghetti per farci
il sugo la sera. L’Arts Factory aveva tutto; un campo da beach volley, una
sala ritrovo, una piscina magnifica al centro degli appartamenti, maestri di
musica, artigiani costruttori di Didgeridoo, una sala pranzo immensa, feste
organizzate ogni sera e natura, natura, natura… in tutti i sensi. E non
costava neanche un’esagerazione. Fortunatamente, anche se il periodo era
veramente busy, riuscimmo a strappare quattro posti letto per tutta la
settimana. Anche se poi non si trattò di una settimana ma di tre o quattro
giorni. Byron Bay è un limbo, come nuotare in una piscina di latte. Le
persone sono cordiali, salutano, sorridono, affrontano le situazioni in
maniera più distaccata, forse riescono a non farsi prendere dal panico;
usano poco le macchine e camminano molto e gli anziani (o almeno quelli che
mi ricordo) sembravano tutti reduci dal Woodstock del ’69. La nostra vita
ruotava attorno all’Arts Factory e alla Baia di Byron, altro posto
suggestivo, vergine, che richiamava altrettanti surfisti cosicché ogni
angolo, ogni faccia, ogni momento in quel luogo potevano diventare i
soggetti di una cartolina o di una qualsiasi scena di un film. E noi eravamo
gli attori principali, e come da copione, anche qui, incontrammo altri
personaggi. Il viaggio cominciava a diventare così una sorta di caccia al
tesoro che ci arricchiva di nuove conoscenze ogni giorno di più. Due nuovi
amici, anzi più di due, ma questi in particolare entrarono a fare parte del
gruppo molto velocemente (come altrettanto velocemente ci lasciammo). Nico e
Marianna dormivano in tenda, nel bosco dell’Arts Factory pagandosi la loro
permanenza con lavoretti di manutenzione nell’ostello stesso; Nico era un
pizzaiolo-surfista, Marianna una donna…
Venivano dall’India, dalla Thailandia, dove avevano già trascorso qualche
mese spendendo quello che qui evaporava dal portafoglio in una settimana ed
erano, infatti, come noi, alla disperata ricerca di qualche altro lavoro
tipo raccolta della frutta o cotton chipping. Le idee però erano sempre
molto vaghe e, come al solito, le onde del mare e le magie del bosco
rallentavano le decisioni importanti. Anche noi rallentammo le decisioni
importanti per qualche giorno; dormivamo nella parte ‘in’ dell’ostello ma in
pratica eravamo stati adottati dalla tendopoli del bosco dove mangiavamo e
facevamo altre utili conoscenze. In più c’era chi aveva la chitarra e così
io potevo sfogarmi un po’ dopo un bel periodo di astinenza. Poi, non appena
arrivarono Mario e Michele, iniziammo a girare con la macchina lungo la
costa e all’interno verso la foresta e verso Nimbim.
[] Quando si parla con un
Australiano per avere un’idea delle distanze che separano una cittadina
dall’altra non bisogna mai fidarsi della parola VICINO, o almeno bisogna
tenere conto che questo termine implica come minimo sessanta-cento km di
spazio; e Nimbim era VICINO a Byron Bay.
On the Road, on the road, on the road, on the road, on the road, on the
road, on the road, on the road, on the road… la strada è la metafora del
cammino della vita, non si sa mai cosa incontri dietro la curva, non si sa
mai chi spunterà dal cespuglio di fianco. Noi, invece, non abbiamo mai
saputo come abbia fatto a reggere il motore di quella macchina ma, comunque,
avevamo iniziato il nostro viaggio sedendoci sui sedili di quello station
wagon rosso che arrampicava la montagna di Byron Bay verso Nimbim. La
sensazione che provai fu di godimento assoluto, avevamo allestito una
carovana e saremmo andati dritto contro il sole, se si fosse potuto, perché
da quel momento eravamo solo noi e la nostra voglia di fuggire divorando
paesaggi e situazioni.
Se a Byron Bay sembrava di nuotare nel latte, Nimbin era una piscina di
panna montata. La vita scivolava a rallentatore e i pensieri uscivano dalla
mente rotolandosi nei locali umidi e colorati di questo piccolissimo centro
disperso nel bosco.
[] Tutto ruotava attorno all’erba, in ogni modo: i vestiti,
le sigarette, i dolci, le bevande, i salotti, i bar, l’aria, il sole, la
notte, gli occhi, le mani, i giochi… e noi ci divertivamo e ci tuffammo nel
sound di quel pomeriggio sapendo che quel posto, prima o poi, l’avremmo
sicuramente rivisto. Ormai eravamo presi dal fascino e dalla possibilità di
poter raggiungere qualsiasi meta a nostro piacimento, senza l’angoscia di
arrivare per forza da qualche parte. Byron Bay era la casa base dove si
tornava per mangiare, stare con i ragazzi del bosco e dormire.
Un giorno, vagando per la campagna del New South Wales ai confini con il
Queensland, incrociammo due ragazze che facevano autostop. La prima, una
cicciona mora un po’ impacciata e taciturna, ci fece compagnia per un breve
tratto di strada quando decise di scendere davanti ad una fermata del bus.
La seconda, invece, ancora oggi credo non sia mai esistita. Si, quasi
certamente un sogno, e le mancavano le ali per essere una fata.
Il suo nome era Bindia e accettò il nostro passaggio perché stavamo
percorrendo la strada che l’avrebbe portata poi dritta a casa sua ma, visto
che le eravamo simpatici e lei non aveva troppa fretta, ci propose una
passeggiata nel bosco, una sorta di escursione guidata fino ad un laghetto
immerso nel verde non lontano dalla fantasia. E, in effetti, era
praticamente impossibile raggiungere quella zona da soli, così ben nascosta
dalla vegetazione com’era. Bindia aveva i capelli tagliati corti, a
casaccio, e fuxia, e un berretto da cowboy in paglia, gli occhi verdi e
accesi come un folletto; non era tanto alta ed indossava semplicemente una
sottoveste nera che le scendeva fino a metà coscia, mentre ai piedi portava
un paio di infradito di gomma azzurra. Era qualcosa di imbarazzante vederla
sfuggire nella boscaglia con quegli abiti da festa in spiaggia mentre noi, impacciatissimi, non riuscivamo a muovere nemmeno mezzo passo, a volte, data
la massiva presenza di rami, radici, pietre, foglie urticanti e sanguisuga
che incontravamo sul tragitto.[] Bindia era incredibile, penso che in quel
momento fossimo tutti in balia del suo fascino, increduli di come una
ragazza, tutta sola, potesse accettare di sparire in un bosco con quattro
sconosciuti, per giunta vestita (o forse sarebbe meglio dire svestita) in
quel modo. Era la nostra sirena e ci avrebbe condotto nel suo regno, e ci
avrebbe fregato sicuramente in qualche modo… questa storia non poteva avere
un lieto fine;[] sarebbe stato troppo bello. Bindia volava sul sottobosco e
poi spariva dietro qualche cespuglio, poi ricompariva dieci metri più avanti
e io la vedevo sempre più bella, sempre più lucente, più sirena di prima.
Dopo una buona mezz’oretta di cammino lei si ferma davanti ad un totem
naturale: pianta secolare, non so dire che tipo di albero fosse ma ci
volevano cinque persone per abbracciarla tutta, una sensazione unica data
anche dalle circostanze. Poco lontano c’era il laghetto dove lei era solita
andare con i suoi amici a fare il bagno. L’acqua era pulitissima ma
rossastra, poiché le rocce li attorno erano pietre ferrose che tingevano in
quel modo tutto lo stagno. Se fosse passato un aereo sopra le nostre teste
avrebbe avuto la sensazione di sorvolare un occhio verde dalla pupilla
rossa. Eravamo nel mezzo di una conca gigantesca invasa di piante e
rampicanti, habitat perfetto per volatili di tutti i tipi, pipistrelli e
quadrupedi vari. Logicamente noi non ne vedevamo mezzo ma potevamo udirne
alla perfezione le voci e i suoni che si amplificavano in quell’arena
naturale. Avevamo un po’ di frutta, tre panini, acqua, ed era rimasto anche
qualcosa da fumare mentre contemplavamo quel posto onirico con lei seduta su
una roccia sulla riva dello stagno. Era caldo, si sa, e Mario aveva portato
con sé anche tutta l’attrezzatura da fotografo. Un silenzio innaturale e
mentre lei ci invitava a fare un tuffo e finiva di parlare, si tolse
lentamente la sottoveste per rimanere in mutande ed entrare come una sirena
in acqua. Noi, nel frattempo, restammo come dei coglioni a bocca aperta a
vedere quel sogno nuotare come se niente fosse (come era giusto) mentre
Mario scattava foto in continuazione cercando di mettere a fuoco solo le
tette. No, nessuno di noi ci provò, credo che nessuno ne sentì l’esigenza
poiché capimmo che Bindia non voleva comunicarci questo, era tutto parte di
quel posto anche se ogni tanto (anche in questo preciso istante) ripenso
ancora a cosa sarebbe successo se ci fossimo spogliati anche noi (…e questo
è un rimorso o un rimpianto?…). Alla fine del bagno, e una volta rivestita,
facemmo ritorno alla macchina per accompagnarla verso casa. Non ricordo se
ci dicemmo niente nella via per il ritorno; ad ogni modo, dopo alcune curve,
ci chiese di fermarsi e scendere, dato che era arrivata a destinazione. Ci
salutò invitandoci a casa sua qualsiasi volta avessimo voluto perché casa
sua era lì, un cancello fra due alberi giganteschi. Bindia lo aprì e
scomparve fra la radura verso casa. E così come l’avevamo conosciuta,
naturalmente, non ci rincontrammo più.
Erano già passati quattro giorni da quando arrivammo a Byron Bay e,
sinceramente, la cosa cominciava a stufare un po’ tutti, avevamo girato, ci
eravamo divertiti e avevamo fatto divertire; come quella sera in campeggio
quando ci vennero a chiamare per suonare nella piazzetta del BackPacker. E
non fu altro che un’improvvisazione deviata dai fumi dell’alcool e qualche
cigarro a portarci al cospetto della platea cantando strofe come “Wanna be
crazy, don’t wanna be lazy” (tutto torna…) e un repertorio di cover
strampalate ed improbabili. In un certo qual modo, anche se non so bene
tuttora il perchè, il pubblico apprezzò.
La mattina dopo partimmo verso l’interno alla ricerca di un lavoro che ci
avrebbe riempito le tasche di soldi per allungare il viaggio. A dire il vero
nessuno aveva una vera e propria necessità di lavorare; era più che altro un
bisogno personale di dimostrare la propria capacità nel riuscire a
districarci in situazioni poco facili, in ambienti completamente estranei al
proprio. L’unico a non essere nello stesso nostro ordine di idee era sempre
e solo Michele, che già soffriva da una settimana la carenza di denaro. In
pratica era partito da Sydney con una somma irrisoria che sarebbe stata
sufficiente per arrivare a malapena fino a dove ci trovavamo in quel momento
e senza mai dire niente a nessuno (e a questo punto forse nemmeno a se
stesso) si era ritrovato praticamente senza un soldo. La cosa sconcertante
era il modo in cui gestiva questo problema che, secondo lui, era una
situazione normalissima; tanto regolare che da quel momento in poi avremmo
diviso per 3 e non più per 4 tutte le spese del viaggio. Lui era l’unico ad
avere fretta di lavorare e proprio per questo spingeva per fuggire da Byron
Bay o Nimbim e trovare lavoro al più presto. Ma in Australia, senza visti e,
soprattutto, senza la minima concezione di dove e come fossero le
opportunità di lavoro non è una faccenda che si risolva in un niente. Per la
verità, però, una mezza idea di dove andare ce l’avevamo, ovvero nel bel
mezzo dello stato del New South Wales. Luoghi come Moree, Wagga Wagga, Dubbo,
Orange, Griffith, Narrabri etc…, insomma località che si incontrano su un
qualsiasi atlante disperse nel nulla dell’outback. Non sapevamo però
dell’esistenza di altre zone ancora più insignificanti che compaiono in
cartine poco più dettagliate o che addirittura non compaiono affatto. Noi
arrivammo a Stanthorpe, un paese come tanti altri che viveva di agricoltura
e allevamenti, con l’idea di lavorare la terra, raccogliere ortaggi o frutta
per qualche settimana, sebbene già dai primi contatti capimmo che c’era poco
da fare. Non servivamo anche se ci tenevano sulle spine con i soliti “forse
domani” o “dipende se piove” e così via. Michele non voleva schiodarsi da
quel posto, o meglio non poteva poiché aveva finito tutti i soldi e
Stanthorpe, intanto, si tramutava ogni giorno di più nel nostro calvario
mentre si avvicinava irrimediabilmente l’unica soluzione plausibile per
stroncare una volta per tutte quella fase di stasi. Al quarto giorno (sembra
l’inizio di un’altra storia…), dopo aver dormito per tre notti abusivamente
in riva ad un laghetto artificiale fra iguane e ragni straordinariamente
pelosi, decidemmo di comune accordo di salutare Stanthorpe e Michele che
trovo ospitalità nell’unico Hotel del paese in attesa di un po’ di denaro
dall’Italia. E così eravamo in tre; si stava più larghi, si spendeva un po’
di più e, forse, ci si capiva prima… forse.
Mi stavo dimenticando di una piccola parentesi che aprimmo prima di
raggiungere Stanthorpe, non appena lasciata alle nostre spalle Byron Bay.
Nel mio zaino, dal giorno in cui iniziò questo viaggio, avevo promesso al
CAVALLARO che sarei passato per Brisbane a salutare, da parte sua, una
persona che egli stesso aveva conosciuto per caso al Moto Mondiale di
Phillip Island per consegnarle qualche foto di quella gara. Non mi
dilungherò certo nel descrivere cosa rappresentassero quelle quattro
fotografie scattate all’interno dei box di Valentino Rossi subito dopo la
fine della competizione con due bellissime porno dive (nude) in sella alla
Honda di RossiFumi con in mano la bandiera di S. Maria dell’Arzilla… Le foto
erano stupende ed inconsuete e bastava guardare la faccia di Valentino per
rendersi conto dell’unicità dell’evento. Non essendoci nessuno a casa,
lasciammo tutto il materiale nella cassetta postale e ci dileguammo come dei
bravi postini; sia in questa situazione che a Sydney, ora che ricordo. Nella
capitale, proprio di fianco al nostro Ostello, viveva un ragazzo che aveva
lavorato e co-abitato con Steve (il Boss del Bar Gladesh). Steve, nel
frattempo, era tornato a casa, s’era fatto qualche mese sui pescherecci
della costa adriatica per prendere poi in gestione quel locale così assurdo,
mentre lui (cazzo non mi ricordo il nome…) era rimasto lì, in quella camera
d’Ostello, sopravvivendo con un lavoro tipo imbianchino-muratore-vetraio e
barattando l’affitto della stanza con qualche opera di manutenzione del
BackPackers stesso (come faceva Mario, come facevano Nico e la Mari, come
fanno in molti laggiù).
Ma, tornando a noi…
…ciao Michele, ciao Stanthorpe, ciao raccolta della frutta; Collura, Vimini
e Mencarini riaccendevano il motore del Mitsubishi alla ricerca di un posto
in cui veramente ci fosse la possibilità di lavorare e tirare su un po’ di
grana; sempre più verso il nulla dell’entroterra australiano. |