Un salto lungo, un salto morbido ma lento, un salto
luminoso.
Avrò guardato fuori dal finestrino decine di volte mentre attraversavamo
mezzo mondo, ma l’unica immagine che ricordo ancora è quell’immensa distesa
arancione sotto di me, a poche ore dall’atterraggio. Ogni 30 secondi mi
chiedevo dove cazzo stessimo andando e soprattutto se l’Australia fosse
tutta così. E già mi immaginavo il caldo, osservando quella terra arida, con
qualche arbusto e pochissime abitazioni. Eravamo lontano da Sydney certo, ma
chi lo sapeva? Solo dopo qualche tempo, o forse anche di più, il rosso
lasciava spazio al verde, intenso e sempre più rigoglioso della vegetazione
e sempre più numerose le case, come funghi, fino ad esplodere in quella
mega-metropoli. Adesso potrei dire che me lo dovevo aspettare, ma lì, in
quel momento, fu tutto una sorpresa.
La luce e la calura, soprattutto, ci entrarono nelle vene ancora intorpidite
dal freddo delle nostre strade ormai troppo lontane non appena si aprirono
le sliding doors dell’aeroporto. Fu come un’ondata invisibile che a 40°
riempì velocemente i polmoni e scese fino alle gambe. Ricordo di aver
provato la stessa sensazione una volta atterrato in Kenya e Tunisia ma ogni
volta è un’esperienza tanto affascinante quanto disgustosa. Mi trascinavo
per le vie trascinando lo zaino, le gambe, lo stomaco e il cervello e penso
proprio che Giovi fosse nelle mie stesse condizioni; sicuramente più sudato
di me visto che non aveva neanche delle ciabatte ai piedi, ma un bel paio di
Clarks sbiadite e calzettoni di lana (puzzolente testimonianza delle nostre
radici).
Ad ogni modo bisognava camminare per trovare un Ostello, per trovare la
metropolitana e magari anche una cartina della città che ci dicesse dove
fossimo; ma soprattutto per trovare un negozio che vendesse ciabatte per i
piedi di Giovanni che gridavano aiuto ad ogni passo.
Le strade, i parchi, le abitazioni… tutto era molto simile a Londra, ma la
gente… quella no.[] Qui erano semplicemente cordiali e meno nevrotici.
Comunque gli zaini, passo dopo passo, erano sempre più pesanti e noi non
vedevamo l’ora di abbandonarli in una qualsiasi stanza per riacquistare un
po’ di energie. Solo dopo quasi due ore di girovagazioni decidemmo di
affittare una camera in un Ostello di King’s Cross, il quartiere ‘rosso’ di
Sydney; unica zona ad avere prezzi decisamente vantaggiosi per Back-Packers.
Appena aperta la porta, non sapevamo se metterci a ridere o piangere. Quell’urna
(per chiamare le cose come stanno) era grande abbastanza per un letto a due
piazze E BASTA; solamente letto e pareti. Poco spazio per appoggiare gli
zaini e poi un gran caldo, sempre più caldo… Ma a quel punto andava bene
tutto e decidemmo che, almeno per quella notte, avremmo dormito lì.
La mattina seguente, infatti, ci spostammo di una decina di metri in un
altro Ostello che, a parità di prezzo, offriva sicuramente servizi più
umani.
E in più c’era gente, cazzo!
C’era una sala di ritrovo, cazzo!!
E pure un bell’atrio, cazzo!!!
Ci restammo due settimane, CAZZO!!!!!
Era una di quelle antiche abitazioni di fine ‘800, terrazze e porticati con
ringhiere in ferro battuto e panche in legno. All’interno la struttura
abbracciava un cortile molto ampio e ricco di piante e rampicanti.
Ovviamente tutto era stato ristrutturato e probabilmente ben poco rimaneva
dell’abitazione originale.
La nostra stanza era una delle tante, al primo piano, che si affacciavano
sul cortile e non era tanto diversa dalla precedente per grandezza ed
ospitalità, con il minimo spazio indispensabile per potersi muovere ed
aprire gli zaini (uno per volta). Anche qui il caldo, ad ogni ora del
giorno, rendeva insopportabile l’ambiente, così angusto che era cosa
veramente ardua riuscire ad addormentarsi senza subire morsi da insetti o
bagnare il cuscino di sudore. E poi, come se non bastasse, dormivamo su
letti a castello con altre due persone…
…altre due persone…
Uno era indiano e, dopotutto, poteva anche essere un tipo tranquillo;
lavorava come cameriere e praticamente lo si vedeva solamente la mattina
quando noi ci svegliavamo e lui riposava dopo le lunghe serate al
ristorante. L’altro, invece, era qualcosa di angosciante e, forse, nel
nostro inconscio, rappresentò la molla di tutto quello che venne poi. Non
sapemmo assolutamente niente di lui; come si chiamasse, quanti anni avesse,
perché o da quanto tempo viveva lì… l’unica certezza era che tutte le volte
che si rientrava in camera, fossero state le tre di notte, l’una di
pomeriggio o le dieci di mattina, lo trovavamo disteso sul letto, bianco e
sudato, con lo sguardo perso dentro lo schermo della tv che si strafogava di
pizzette e patatine; li sulle lenzuola sudicie, a trentacinque gradi, in un
buco di stanza con le tende tirate e il ventilatore a manetta.
Fu anche grazie a lui se ogni giorno ci svegliavamo presto per andare al
mare, grazie a lui se, ogni giorno, una fetta del tempo la dedicavamo alla
disperata ricerca di un fuckin’ job perché avevamo l’esempio vivente della
rassegnazione che respirava la nostra stessa aria e non era certo nelle
nostre intenzioni ridurci a quel modo. Così cominciammo a darci da fare,
sperando in un lavoro da baristi che avrebbe accontentato i nostri desideri
stupidi ma non trovammo assolutamente niente (o forse non cercammo
assolutamente niente)… Fatto sta che il tempo andava sempre più avanti
mentre restavamo fermi e vedevamo i soldi volare via. Però ci divertivamo un
casino e Sydney era un mezzo paradiso con le sue spiagge infinite e
infuocate, con ragazze culaccione e abbronzate che fioccavano dal cielo e in
mano avevamo sempre una birra fresca, fresca e basta. In ostello eravamo gli
unici italiani e questo poteva già essere un buon inizio per ampliare le
nostre conoscenze linguistiche… Poi, un pomeriggio, conoscemmo Michele:
pugliese verace e un po’ malinconico che amava perdersi in discorsi conditi
con massime o valutazioni estemporanee che, spesso, lasciavano il tempo che
trovavano e, soprattutto, non avevano mai fine. Lui che parlava dei suoi
precedenti lavori, lui che ci raccontava delle sue esperienze psichedeliche
fra gli aridi paesaggi della sua terra… e noi che avevamo la testa tutta da
un’altra parte, e ci rendevamo conto che Sydney, in fondo in fondo, non era
poi tutto questo mezzo paradiso che credevamo perché costava soldi, molti
soldi e tempo prezioso.
A volte, però, questo malumore si assopiva dinanzi alle onde e alle spiagge
di Bondy Beach dove, quotidianamente, centinaia di ragazzi sfruttavano il
soffio del vento e la rabbia del mare per fluttuare con i loro surf fino al
tramonto, anche con la pioggia, anche con gli squali, anche a Natale
(trentotto gradi) o capodanno (trentotto gradi). Quella baia era
incredibilmente rilassante e allo stesso tempo piena di fermento; era una
lunga distesa di sabbia incastonata fra due altopiani rocciosi a strapiombo
sull’oceano che confinavano con altre baie simili. Ogni tanto capitava di
fare una camminata da quelle parti per sedersi sul bordo della roccia e
osservare all’infinito la curvatura dell’orizzonte e le barche a vela che
scivolavano storte sulle onde. C’era anche un cimitero, immenso e solare,
che rotolava con le sue lapidi bianchissime verso la schiuma delle onde, e
la voce dell’oceano era la preghiera più bella che si potesse desiderare
[].
Bondy Beach era praticamente diventata la nostra seconda casa e, come tale,
la sfruttammo anche per trascorrerci il giorno di Natale: un delirio…
La sensazione che si prova nel vedere una donna in bikini e tanga col
berretto di Santa Klaus è tanto blasfema quanto magica e la dice lunga su
quanto ci sia rimasto di commestibile nella padella del cristianesimo. Quel
pomeriggio ci catapultammo nell’atrio di un college dove si stava svolgendo
una festa studentesca a suon di musica rock, birra e gavettoni…
…logicamente si pagava. Logicamente noi entrammo senza pagare.
Poi, quando la birra era finita e la gente cominciava a sfollare, prendemmo
la strada del ritorno che, senza preavviso, ci consegnò nelle mani di un
altro fenomeno, appoggiato alla fermata del bus, che cercava disperatamente
di portarsi a letto almeno una delle tante (molte delle quali scadenti)
ragazze della festa. L’impresa, purtroppo per lui, era praticamente
impossibile sebbene fosse un ragazzo moro, occhi marroni/verdi e con un
magnifico tatuaggio della Trinacria fra le scapole. Insomma, un bel
siciliano ubriaco di nome Mario. Anche noi, vista la giornata, non eravamo
nelle migliori condizioni ma quella volta almeno, lui era sicuramente messo
peggio. Comunque, finite le donne e finiti anche i bus, ci ritrovammo a
discutere sulle solite divagazioni alcoliche che si tramutarono ben presto
in discorsi sempre più definiti visto che Mr. Mario Collura, figlio di
siciliani emigrati in Germania, abitava a venti metri dal nostro Ostello e,
a grandi linee, era venuto in Australia col nostro stesso intento: cercare
un lavoro part-time che gli potesse permettere di guadagnare due soldi in
più per poter poi girare con calma e bene questo strano ed immenso
continente. Ah, cosa importantissima da dire, Mario si era comperato una
Mitsubishi station wagon rossa usata e aveva una gran voglia di farla
camminare, meglio ancora se questa esperienza poteva condividerla con
qualcun altro… Era il 25 dicembre e Babbo Natale ci aveva appena portato il
regalo!
Tutto calzava alla perfezione e il momento non poteva essere che il più
adatto; potevamo iniziare a pensare di fuggire da Sydney anche se ancora
bisognava pianificare certe cose,[] come quell’escursione organizzata alle
Blue Mountains che, guarda caso, Mario faceva con la sua macchina,
decidendo, a differenza nostra, tempi e luoghi da visitare.
Ad ogni modo, le nostre teste e i nostri nervi erano già fuori dall’ostello,
fuori da quel buco di camera da letto e fuori da quell’immensa capitale del
New South Wales… senza sapere assolutamente cosa ci fosse fuori!
Proprio grazie alle Blue Mountains iniziammo a capire come fosse configurato
il territorio australiano o almeno una buona parte di esso. Bastava
allontanarsi solo un centinaio di km da Sydney per essere sommersi dal verde
della foresta e da una vegetazione esplosiva. Il nome di questa zona (in
particolare) deriva infatti dalle piante di Eucalipto che, al tramonto, per
uno strano gioco di luci, assumono una colorazione blu-violacea che inonda
tutta la vallata. E’ un po’ come entrare in un sogno, qualcosa di soporifero
e caldo, una nuvola turchina.
Fu qui che per la prima volta vedemmo anche
dei canguri. Va be’, erano in cattività e con questo ho detto tutto
[] ma
l’emozione di trovarsi di fronte ad un animale di cui sospettavi magari
anche l’esistenza è sempre forte. Comunque. Comunque la gita era servita per
capire due cose principalmente:
1. che le gite guidate sono una grandissima minchiata e, di conseguenza,
2. che era veramente giunta l’ora di levarsi dai coglioni.
Così, dopo aver festeggiato degnamente il Capodanno al cospetto della Baia
di Sydney, dell’Opera House, dei fuochi di mezzanotte e quattro bottiglie
della Barossa, eravamo pronti per la partenza.
Avevamo già prenotato da una settimana il coach che ci avrebbe catapultato,
dopo 1200-1500 km di viaggio ininterrotto, a Byron Bay, cittadina di pochi
abitanti ai confini col Queensland e terra di Surfisti e freakettoni, quando
venimmo a sapere delle intenzioni di Mario, il quale aveva lo stesso
programma nostro ma con la sua auto (mitica legge di Murphy).
Era, più o meno, dal giorno di Natale che non lo vedevamo e quel pomeriggio
lo incontrammo al supermercato.
Non sapevamo come fare; Mario non se la sentiva (per questioni economiche)
di partire da solo per raggiungerci fino a Byron Bay e noi non avevamo
voglia di buttare via del denaro (quindi stesse ragioni) disdicendo il
viaggio di punto in bianco. Una soluzione però c’era. Unica strada
percorribile. Con Mario sarebbe partito anche Michele (il pugliese) che così
avrebbe ammortizzato le spese per la benzina e comunque ormai faceva parte
della combriccola a tutti gli effetti. Ci lasciammo, quindi, per
rincontrarci 1500 km più a nord.
Non saprei descrivere cosa provavo veramente perché all’euforia del viaggio
e di nuovi luoghi da visitare c’era il dubbio di affrontare un’esperienza
del genere con gente che conoscevo, si e no, da una settimana. Poi, però, la
voglia di vivere un’avventura in macchina in giro per l’Australia la faceva
da padrona su tutte le seghe mentali possibili, anche se quel bolide partiva
da Sydney con una sospensione a pezzi, un motore bello vissuto e due matti
dentro.
Mario e Michele arrivarono a Byron Bay un giorno dopo di noi. |