Tutto nacque per caso durante una calda e tormentatissima
stagione da barista-cameriere-lavapiatti-cuoco-dj in uno dei tanti
sovraffollati bar della riviera adriatica, frequentato dalle più disparate
forme di pazzoidi mischiati al solito gregge di ricconi della zona.
La giornata tipo, in un classico week-end di luglio, cominciava alle ore
sette sulle note della chitarra di Pino Daniele, intervallate da qualche
exploit dei Funkadelica o affini che si rincorrevano fra i cappuccini delle
vecchie, i Pokemon dei nipoti viziati e i birrini degli immancabili cultori
dell’After-hour che concludevano così i loro mitici viaggi notturni.
Già dopo due ore solamente, questo tipo di clientela scompariva come per
magia, e se le vecchie dormivano sotto gli ombrelloni mentre i nipotini
sguazzavano a riva, gli altri collassavano tutti dietro i capanni o si
strafogavano di pizzette e maionese per smaltire gli stravizi della serata.
In un certo senso, anche se era un’impresa svegliarsi alle 06:30 e dover poi
sragionare con certa gente, forse quelle erano le due ore più normali
dell’intera giornata. Da quell’istante in poi una sola parola poteva
descrivere alla perfezione l’atmosfera che si respirava al Bar Gladesh:
Caos.
E il caos era rappresentato da orde di mamme e padri che si scavalcavano
all’infinito per potere ordinare un caffè o un primo mentre noi, dietro la
trincea del bancone, ci massacravamo fino all’esaurimento, fino a non
poterne più, fino a sputare nei piatti di clienti arroganti e presuntuosi
che pretendevano ciò che non avrebbero mai osato chiedere nemmeno nel più
rinomato dei ristoranti.
E intanto il giorno andava avanti a diverse velocità e ci si trovava spesso
a dover lavorare anche dodici ore filate per non lasciare in cattura il
resto della ciurma.
Poi, quando il sole cadeva dietro la collina, spuntavano come per incanto da
sotto il bancone le vecchie e i soliti mitici lupi per l’aperitivo serale,
che veniva servito dalle 19:00 a notte inoltrata.
Questo era quello che offriva il Bar Gladesh, con la sua struttura
fatiscente e una vista magica sul Mare Adriatico, accompagnata ogni tanto
dall’urlo violento del treno che strisciava a un metro dalle nostre orecchie
(indimenticabile). Ma prima, dopo e durante questo splendido vortice
quotidiano c’eravamo noi che cercavamo di mandare avanti quella che ormai
era diventata una vera e propria scommessa stagionale; cinque ragazzi legati
da una amicizia elettrica (Steve, Sara, Sabina, Io e Giovanni) e forse
qualche cosa in più che, però, scivolò presto nello scarico del lavandino
assieme alla broda del caffè.
Penso che durante quella stagione tutti quanti cambiarono idea su molte
cose; a proposito del denaro per esempio, dell’amore, dell’amicizia, della
fatica o della vita in generale.
Quel posto era un incrocio di tutto e di niente a partire da chi ci
lavorava, e le litigate o i baci, che erano all’ordine del giorno (in cucina
o sul bancone del bar in faccia ai clienti allibiti), dimostravano tutta
l’instabilità della nostra persona. Alla fine della giornata avevamo la
schiena spezzata in due (o almeno io sicuramente visto che il piano di
lavoro mi arrivava alle cosce) mentre la testa si arrovellava a contare e
ricontare le ore di straordinario in base allo stipendio, percepito
rigorosamente in nero.
Questa favola, che durò più o meno tre mesi, mi permise però di conoscere
una marea di gente nuova (io mi innamorai almeno una ventina di volte) e
quasi per caso, perché per caso non succede mai niente, mi ritrovai in una
dimensione di menefreghismo totale nei confronti di tutto.
L’unico punto fermo, una volta chiuso il locale, era quello di riuscire ad
accumulare più soldi possibili e partire lontano, staccare la spina per un
po’ di tempo prima dell’inizio del nuovo anno.
Sentimenti simili li avevo già vissuti altre volte ma puntualmente si
ripresentavano stimolando i miei pensieri che cominciavano a spaziare un po’
ovunque, cercando soluzioni alternative a quella pesarese. Non era poi tanto
difficile finire in simili trappole mentali se penso allo stile di vita che
si conduce in questa città. Pesaro è talmente prevedibile da sembrare un
disco incantato con i divertimenti e i ritrovi tutti ben programmati
nell’arco delle stagioni; in pratica non esistono variazioni sul tema.
Vorrei dire tante cose a proposito; e potrei parlare della politica, dei
vecchi che vogliono il silenzio dopo le sei, dei giovani che sono, in fondo,
ancora più vecchi e rincoglioniti dei vecchi stessi, della droga e della
Pesaro città tranquilla, di me in tutto questo torpore e del lenzuolo di
routine che è stato steso sopra questa valle stupenda. Ma non c’è bisogno di
farla tanto lunga, penso… ogni luogo, in fondo, è stupefacente allo stesso
modo.
Queste considerazioni, che pulsavano vive nella mia testa allora come oggi,
rappresentavano la molla prima, la vera spiegazione alla mia voglia di
fuggire via.
Il viaggio assumeva quindi un suo significato particolare, voleva dire
uscire dal guscio che lentamente mi costruivo addosso e, allo stesso tempo,
rappresentava una prova ulteriore, una sfida verso me stesso, una porta
sbattuta in faccia al tepore rassicurante dell’abitudine che vizia, coccola
e alla fine soffoca.
Era una frenesia bastarda che non circolava solo nelle mie vene ma che
condividevo anche con Giovanni, il mio compagno di lavoro.
Non è che lo conoscessi benissimo, sebbene frequentassimo da anni la stessa
compagnia. Giovi era veramente particolare e in quell’anno venne
soprannominato “Il Bradipo” per la lentezza dei movimenti che risaltava sul
suo portamento gigantesco e scoordinato.
Non l’avevo mai conosciuto sotto nessun punto di vista e forse lo odiavo
anche, un po’ per quel suo fare leggero e disinteressato; e invece non era
così. Sotto c’è sempre qualcosa di diverso e io lo capii nel tempo, nel
lavoro, nei momenti di paranoia a trenta gradi sotto la tettoia di lamiera
incandescente del bar.
Tre mesi per costruire un’amicizia nuova sono quasi un record, ma se penso a
quelle perse coltivate negli anni non ha molta importanza; Giovanni quell’estate
diventò un punto di riferimento verso cui proiettare i sogni, le idee, le
fughe.
Già dalla fine di Agosto, quando entrambi ci rendemmo conto che tutto stava
(finalmente) finendo con i temporali e la temperatura sempre più rigida,
cominciammo ad immaginarci un inverno e un capodanno nuovi.
“Cosa c’è?”
“Non lo so, non so dove andare…
…ma un altr’anno qui no!”
Bel pensiero, sintonia perfetta, ma i posti erano tanti e io avevo il
pallino del Mexico, della Patagonia, mentre altri avevano già progettato una
vita in Venezuela…
Si discuteva di questo già dal 20 di Agosto o forse da molto prima. Poi un
giorno conoscemmo Simone che fu (e per me lo è ancora) un sogno, un regalo
inatteso in quei giorni così lunghi e caldi.
Non starò qui ad elencare le sue caratteristiche o le migliaia di lavori e
luoghi che lo riguardano, non ho il suo carisma nel farlo anche se, un po’,
devo comunque descriverlo.
Simone non è altro che il CAVALLARO e questo soprannome deriva dal fatto che
possiede solo un cavallo, niente di più, anzi, forse ha molto di più ma chi
se ne frega.
Il CAVALLARO è un film: ha le orecchie a sventola, il naso immenso e non
vede a un centimetro da quello, veste con abiti veloci e colorati. Il
CAVALLARO è un genio?
C’è chi dice che sia matto, c’è chi dice no.
Il CAVALLARO ci ha cambiato la vita.
Il bar era prossimo alla chiusura e noi due fantasticavamo ancora una volta
sulle vacanze invernali… l’Africa, l’America latina o, se si fosse potuto,
anche sulla luna.
I fiumi e le giungle delle amazzoni, anche, erano una calamita molto forte:
gli stregoni, la foresta vergine e i pericoli mortali; poi, lentamente,
senza rendercene conto scivolavamo dal Perù fino in Venezuela assieme agli
altri, che il biglietto l’avevano già prenotato e, dato che l’unione fa la
forza, già progettavamo grandi segate sui lidi di Maracaibo.
Per coincidenza di ritmi, il CAVALLARO, quel giorno, era al bar, e sentendo
i nostri discorsi vaporosi pensò bene di intervenire con un’idea nuova che
non era stata ancora presa in considerazione: l’Australia.
“L’Australia?!!?! Ma che cazzo dici Simo… ma ti rendi conto dov’è!?! E’
troppo distante e in più non ci basterebbero i soldi. E poi scusa, fa caldo
come in America latina ma costa tutto il triplo… no…, non fa…, non si può!”
E’ vero, non si può. Non si possono dire stronzate simili senza neanche
sapere di cosa si stia parlando.
Personalmente l’Australia non era che un continente onirico, una timida
parentesi nel mondo dei cartoni animati rappresentata da quattro canguri
rincorsi da un cacciatore o la sagoma del Koala sugli adesivi del W.W.F..
La geografia di questo posto era anch’essa inventata di sana pianta. Sydney,
Melbourne e Adelaide erano là, si, ma dove? E quanto grandi?
E QUANTO ERA GRANDE L’AUSTRALIA?
Simone sapeva tutto e quel pomeriggio lo trascorse appoggiato al bancone del
bar ad elencare ogni caratteristica di quello che, a suo dire, era il luogo
più bello in cui poter vivere. Poi, ogni dieci minuti, ripeteva
sistematicamente che quella doveva essere la nostra meta, sicuro del fatto
che ci saremmo trovati talmente bene da non voler tornare più indietro.
Le certezze non mi convincono mai, soprattutto quando si parla di viaggi; e
il nostro era uno di quelli senza piani o progetti particolari, quindi i
racconti del CAVALLARO mi emozionarono ed irritarono allo stesso tempo.
Cosa ne poteva sapere lui di come ci saremmo trovati laggiù? Magari ci
faceva talmente schifo da fare dietro front già dopo la prima settimana.
Lui, come noi, questo non poteva saperlo, eppure continuava a battere la sua
strada con una convinzione sconcertante.
Ad ogni modo quella specie di conferenza durò fino al tramonto ed essendo
stata una giornata pessima dal punto di vista meteorologico, nessuno lo
disturbò nel suo monologo, intervallato sistematicamente da lunghe sorsate
di birra gelata.
Così, quella sera, una nuova destinazione andava ad aggiungersi alla già
lunga lista mentre nella nostra vita, quasi inconsapevolmente, entrava un
nuovo amico.
Agosto abbandonò la spiaggia e il bar lasciando libero sfogo ad una pioggia
autunnale un po’ troppo malinconica. L’estate stava finendo (…grandi
Righeira…) ancora una volta e i giorni difficili dietro al bancone divennero
ben presto simpatici ricordi da raccontarsi nei mesi freddi che,
naturalmente, non tardarono ad arrivare.
Settembre, Ottobre e Novembre scivolarono giù dal calendario veloci come un
lampo, senza avvertire. E così fu per noi due che, senza dire niente a
nessuno e tanto meno a noi stessi, eravamo giunti finalmente ad una
decisione dopo tanto pensare e sognare. Avevamo deciso di provare, e dare
ascolto al più pazzoide del Bar Gladesh (dopo Steve naturalmente) sapendo
già in anticipo che la scommessa era azzardata ma che l’entusiasmo era alle
stelle.
Questi due fattori giocarono un ruolo determinante sempre, anche quando si
lavorava: un gruppo di amici che guidava una macchina senza freni; questa
era la sensazione che respiravamo.
Penso che fosse verso la metà di Novembre quando acquistammo i biglietti .
Erano, naturalmente, i più economici (i soldi sono utili a terra) e per due
come noi andavano benissimo. L’aereo faceva quattro scali per un totale di
due giorni di volo: Ancona, Roma, Abu Dhabi, Taiwan, Sydney. Un rebus di
fusi orari e coincidenze da rispettare, altrimenti saltava tutto.
Noi, comunque, non avevamo alcuna fretta, anzi, eravamo talmente tranquilli
che anche a distanza di una settimana dalla partenza (16 Dicembre 2000) non
avevamo acquistato nessuna guida, depliant o foto che ci parlassero
dell’Australia e non avevamo prenotato nessuna camera in nessun albergo.
Avevamo solo il nostro biglietto e una vaga idea su come riempire lo zaino.
E come inizio era più che sufficiente.
Uno dei pochi pensieri fissi che impegnavano la mia mente in quelle
settimane sempre più fredde e noiose era se portare o meno con me la
chitarra: un legno vecchio e usurato le cui chiavi a malapena reggevano
l’accordatura. Era uno strumento da battaglia che mi aveva già accompagnato
in altre situazioni ma che in questo viaggio, forse, non avrebbe trovato il
giusto spazio. Così abbandonai la brillante idea con piena soddisfazione da
parte di Giovanni che non andava molto d’accordo ne con i miei gusti
musicali ne tanto meno con i suoi, che fra l’altro non aveva.
E poi… Sara.
Dopo un lungo periodo di assoluto letargo affettivo mi ritrovai con lei,
grazie ad una serie di coincidenze, a suonare musica pseudo-rock in uno
stanzino assieme ad altri tre gatti lunatici mentre il mio sangue si
mischiava al suo ogni giorno di più.
Lo stanzino è un’esperienza stupenda e la musica crea legami fortissimi o
abissi altrettanto incolmabili (…ciao Tambu…); e sia con il gruppo che con
Sara stava nascendo una storia nuova, ma io ero comunque molto confuso e in
quel momento non poteva esistere intervallo migliore di un viaggio. Potevo
vedere le cose più da lontano, in tutti i sensi, e capire cosa volevo
veramente a rischio di tornare e perdere tutto, ma questo mi stava bene,
faceva parte del gioco, anzi, era il gioco (anche se avrei sofferto come un
cane).
Io e Giovi avevamo grandi aspettative.
Del Bar Gladesh ci rimanevano un affiatamento e una voglia di tuffarci in
esperienze nuove quasi inaudita. Non sapevamo niente di quel continente ma
già avevamo preso in considerazione quel progetto di esportare la piadina
romagnola e Peppo si era subito prenotato per lavorare alle nostre
dipendenze in cucina.
Nel pulmino che ci accompagnò ad Ancona c’eravamo tutti, sia quelli che
volavano verso il Venezuela che noi diretti agli antipodi mentre Pesaro
scompariva dalla vista e dai nostri pensieri sotto una nebbia fitta e
spessa.
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